Presentato in concorso alla 76esima edizione del Festival del Cinema di Venezia, Ad Astra è un’opera spaziale sontuosa e raffinata, seppur non perfetta. Diretta da James Gray e prodotta da Brad Pitt, che è anche protagonista della vicenda che vede al centro l’astronauta Roy, mandato nello spazio per salvare il mondo e scoprire la verità sul padre scomparso.
Un’interessante riflessione sul futuro che ci attende, tanto sulla Terra quanto lassù, tra Luna, Marte e chissà ancora dove, e chissà con chi. Ed è in quel chissà, nell’incertezza latente dello spazio profondo, che James Gray ci invita a perderci, tra l’esistenzialismo di un essere umano messo a nudo dalla propria solitudine.
Non è la prima volta che Brad Pitt produce un film di James Gray. Già The Lost of City Z (2014) vedeva il noto attore tra i finanziatori, tra l’altro in un’opera che con Ad Astra sembra condividere molti dei meccanismi drammatici e dei temi trattati, seppur con qualche interessante ribaltamento. Quello del 2014 era infatti la storia di un uomo che, sacrificando carriera e famiglia, si metteva in cerca di risposte sul passato di civiltà perdute, mentre qui si vola nella spazio dalla prospettiva di un figlio in cerca del padre scomparso, forse morto, forse nascosto tra gli anelli di Nettuno. Si cambia dunque angolo d’osservazione, riflettendo sulle conseguenze psicologiche di un abbandono che nella sua vittima, l’astronauta Roy, si manifestano in un rigido approccio ai sentimenti ed ai legami umani.
Non è però il caso di credere che Ad Astra di Gray sia una qualche moderna space opera, ossia un melodramma tra le stelle. È invece un film molto più intelligente, costruito come un noir il cui eroe protagonista commenta gli eventi con un Voice Over che lo vede distante, apatico e asettico in qualunque situazione. Roy non supera mai gli 80bpm, risponde ai test psicologici come se non lo riguardassero ed agisce al meglio nel suo ruolo di militare ed astronauta. Solo per questo riesce ad accettare la più difficile delle missioni: trovare risposta agli strani picchi che stanno mettendo in pericolo la Terra e che potrebbero essere causati da un progetto fallito attorno agli anelli di Nettuno, un progetto con a capo proprio il padre di Roy.
Il viaggio che lo attende ha inizio da quest’escamotage non così distante dal qui più volte citato 2001: odissea nello spazio, ossia dalla necessità di trovare risposta ad un evento localizzato nei più lontani confini del sistema solare. Allo stesso modo dell’opera kubrickiana, lo spazio e il vuoto vengono quasi immediatamente piegati ad una narrazione che sfrutta gli elementi fantascientifici per portare il suo protagonista oltre il proprio limite, spingendo quegli 80bpm ad esplodere in un Voice Over che latita tra la verbalizzazione e la soppressione.
Non c’è bisogno però di tornare al 1969 di Kubrick per parlare di spazio ed esistenzialismo; anzi, sarebbe il caso di restare proprio nei paraggi dell’ultima decade di cinema fantascientifico. Ad Astra di James Gray è infatti l’ennesima, anche se forse non massima, manifestazione di un genere che in mano ad autori in cerca di luoghi in cui testare l’uomo si avviluppa in filosofiche rappresentazioni dello spazio più profondo. L’odissea di Roy risponde infatti alle follie allucinogene di The Moon, di Duncan Jones, alla regia misurata di Villeneuve e del suo Arrival, e certamente al Gravity del messicano Cuaron. Proprio con quest’ultimo Ad Astra condivide le maggiori criticità, soprattutto in un finale che calcando le mani sulla soluzione del viaggio si trova ad inscenare espedienti (fanta)scientifici che richiedono una massiccia sospensione della credulità.
Non sarebbe certamente un problema se non fosse Gray stesso a porre l’intero viaggio in un’aura di possibilità, provando spesso a trasporre l’attuale società, e tecnologie, in un futuro non così lontano. Questo elemento di realtà, la cui scomparsa rende l’ultimo atto meno avvincente e fuori tono, è anche uno dei più interessanti da osservare. Si ha infatti l’occasione di vedere una Luna colonizzata da più paesi, e così divisa tra territori di guerra e luoghi di pace, nel ripetersi perpetuo del modello bellico umano. Sempre sul suolo lunare troviamo grandi edifici popolati da fast food e catene, in maniera non così irrealistica nell’applicazione basilare del concetto di brand e franchise. C’è certamente dell’ironia, soprattutto nel viaggio verso la Luna con tanto di prodotti igienici a pagamento e ringraziamento finale, «grazie per aver scelto la nostra compagnia», ma è un gioco che non pretende sempre un giudizio, quanto invece una semplice volontà di fare del cinema un esperimento del futuro.
A livello sociale non si cambia mai davvero, sembra dirci con Ad Astra James Gray, il quale sposta così l’attenzione verso l’uomo e la sua universalità. Nel viaggio vissuto da Roy ci si allontana sempre di più dall’umanità, come comunità, per scoprire invece l’essere umano, ed è in quest’essenziale passaggio che potremmo trovare una delle principali giustificazioni a quella scomparsa di credibilità con cui viene risolto il percorso. È un viaggio molto intimo, le cui fasi scandite svelano le due fonti prese a modello da Gray: l’Odissea di Omero e L’Eroe dai mille volti di Cambpell, ossia due testi che strutturano il viaggio dell’uomo in tappe universali ed eterne.
Quest’idea di fondo, che è il cuore pulsante di un’opera che sfrutta lo spazio per parlare dell’uomo, viene incorniciata da uno stile che ignora la maestosità delle stelle per sostare senza fretta sui movimenti sempre più nevrotici di Brad Pitt. Possiamo tranquillamente affermare che quella dell’attore è una duplice prova attoriale: una gestita dalla voce, in quel Voice Over che allude ad un passato pesante e celato, e una del corpo, in conflitto tra la pacatezza di un battito del cuore rallentato e l’imminente perdita di controllo. Il dissidio che abita Roy ha però un’origine ben chiara, identificabile nel rapporto con un padre che è la vera fonte, ma anche l’unico obiettivo. Viaggia per lui, viaggia da lui, e il vuoto siderale in cui si perdono sembra confonderli in quella che alla fine è la storia di un uomo posto dinnanzi a una scelta. Affrontare il padre per prenderne il posto, o smascherarne il ruolo d’ombra per assimilarne il peso ed evolvere oltre il proprio passato. Tutto questo è per Gray occasione per rallentare lo Spazio profondo, incorniciarlo in quadri riflessivi che prima si scuotono nella caduta mortale che dà inizio al film, poi si immergono in un buio lago marziano ed infine si placano in un ritorno che chiude il viaggio con attenzione alla regia come vera narratrice di quest’evoluzione psicologica e umana.
Ad Astra, verso le stelle, ma per Aspera, attraverso le avversità. La vera protagonista di quest’opera densa di temi, ma misurata nello stile, è infatti l’evoluzione di un uomo, dell’uomo, messa a repentaglio da conflitti che come cerchi concentrici finiscono per stringerlo. Si è così ipnotizzati da un thriller, quasi un fanta-noir, che guida lo spettatore in un percorso catartico lungo il quale si ha modo di specchiarsi in luoghi sconosciuti, eppure familiari. Le inquadrature di James Gray sembrano così avere sempre a che fare con l’uomo, illuminate dal direttore della fotografia come fossero spazi d’intimità anche nel più desolato paesaggio marziano, e infine accompagnate senza necessità di enfasi dalle note di Max Richeter, compositore britannico già dietro le sonorità del sopracitato Arrival.
Ne esce un film grandioso per il viaggio esistenziale proposto, sufficientemente libero da quei cliché che sin da subito ne avrebbero potuto minare la riuscita e che invece, qualora proposti, vengono nobilitati da una messa in scena che pur avendo a disposizione lo spazio, osserva l’uomo, nel buio e nella tensione della solitudine.
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