Sblocchi il tuo smartphone, apri Instagram e scorri le stories. Salta fuori un contenuto sponsorizzato: non è un brand di moda né un evento, non è nemmeno un brano musicale. È la foto di una persona – probabilmente giovanissima – in posa davanti a un paesaggio, un graffito o qualcosa del genere. Incuriosito, visiti il suo profilo e scopri che non canta, non dipinge né recita. Non ha nessun progetto particolare da pubblicizzare: è una persona qualunque. Una persona qualunque che ha pagato perché tu vedessi la sua foto. Che ti sia già successo oppure no, imbattersi in contenuti di questo tipo sui social è sempre più frequente, e probabilmente è arrivato il momento di chiedersi perché.
Sappiamo già che i social network assecondano – e probabilmente amplificano – quella vanità che c’è in ciascuno di noi. Ogni volta che selezioniamo e confezioniamo con cura dei contenuti da condividere, costruiamo a tavolino la nostra immagine, rendendola quanto più positiva o attraente possibile.
Non dimentichiamoci, però, che Instagram, Facebook e tutti gli altri social non sono soltanto vetrine per la nostra immagine. Sono sofisticati mezzi di comunicazione, ognuno con la sua struttura e le sue regole. Su Instagram, ad esempio, quando condividiamo qualcosa, sappiamo che i destinatari sono i nostri followers, persone che – in teoria, almeno – hanno qualche tipo di rapporto con noi. Quindi c’è un messaggio e ci sono dei destinatari. Ma in che senso, di preciso, usiamo Instagram per comunicare?
Se pensiamo a Whatsapp e piattaforme simili, sappiamo bene che lì la comunicazione passa tra noi e degli interlocutori precisi, ai quali vogliamo semplicemente dire qualcosa per ottenere una risposta in cambio. Sappiamo che il tutto ha funzionato correttamente quando il destinatario riceve il messaggio, lo visualizza e risponde di conseguenza. Con Instagram, però, le cose si complicano: una volta affidato un contenuto al feed o alle stories, quando possiamo dire che la comunicazione ha funzionato? Cos’è che davvero ci aspettiamo di ottenere?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tener conto del fatto che esistono due modi diversi di comunicare via Instagram. Il primo è quello dell’utente standard, che vuole semplicemente avere un impatto sui suoi followers in termini di attenzione e di gradimento. L’attenzione e il gradimento riscossi indicano quanto positiva è l’immagine che chi lo segue ha di lui. Se tutto ciò gli interessa tanto, è perché in genere i suoi followers – almeno in qualche misura – rispecchiano le sue reali frequentazioni, il suo ambiente sociale.
Ma esiste anche un altro modo di usare Instagram. A sceglierlo sono utenti che non puntano alla stima e al riconoscimento di chi li circonda. Utenti che comunicano su Instagram per diffondere, promuovere, vendere. Parliamo di aziende, celebrità, marchi, istituzioni e influencer. Il rapporto di queste figure con Instagram è profondamente diverso rispetto a quello degli utenti standard e la loro comunicazione, per funzionare, deve raggiungere tutta un’altra serie di obiettivi. Gli esempi più chiari sono brand, aziende e professionisti. È impossibile confondere un profilo del genere con un profilo personale: non ci troveremo selfies sfocati né foto di vacanze, ma post pieni di informazioni, costruiti spesso in modo professionale. Capiamo subito perché un post proveniente da questo tipo di account ci raggiunge: non per ottenere il nostro affetto né la nostra amicizia, ma per promuovere un prodotto, un servizio o un progetto.
Per star, politici e influencer il discorso si fa più interessante, dato che i profili di queste persone fanno proprio dell’ambiguità la loro forza: accanto alla comunicazione istituzionale del ministro, troviamo il suo selfie con la merenda. Mentre l’influencer documenta anche la sua vita privata, non manca mai di condirla con product placement e sponsorizzazioni. Perché questi utenti cercano di contattarci? Gli interessa davvero condividere proprio con noi momenti significativi delle loro vite? Certo, sarebbe molto bello da credere, ma la risposta è chiaramente no. Questi profili servono solo a promuovere un progetto, anche quando questo si identifica con una persona. In breve, non promuovono persone ma personaggi. Un personaggio è qualcosa che apparentemente comunica come faremmo noi, ma dietro cui spesso si nasconde un team di professionisti. È qualcosa che cerca attenzioni ma, a differenza nostra, non se ne accontenta. Queste attenzioni hanno davvero valore soltanto se si traducono in altro: spettatori, voti, partnership e chi più ne ha più ne metta.
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Oltre a inseguire obiettivi diversi, l’utente standard e il personaggio o il brand usano Instagram in modo diverso. Ai secondi – e, teoricamente, soltanto a loro – il social riserva i profili aziendali, dotati di statistiche sui followers e i loro comportamenti, oltre che di opportunità di sponsorizzazione a pagamento. Queste features sono chiaramente concepite per procacciare e gestire clienti e fan, non amici e parenti. Ma allora perché vengono usate sempre più spesso anche da chi non ha nulla da promuovere, né un bacino d’utenza da profilare? La questione è meno scontata di quel che può sembrare.
Cose come usare Photoshop o comprare like e followers fasulli servono, in fondo, solo a migliorare la nostra immagine agli occhi degli altri. Se le facciamo, è per gli stessi motivi per cui, al bar, ci vantiamo di imprese mai compiute, per cui ci trucchiamo prima di uscire o per cui ci mettiamo sulle punte nelle foto di gruppo. Ma cos’è, invece, che può portarci a diventare veri e propri marketer di noi stessi? Cosa spinge una persona a targettizzare conoscenti e amici, a pagare per avere la sua foto sul cellulare di uno sconosciuto? Forse dovremmo ridisegnare il confine che passa tra persona e personaggio, al tempo in cui anche la vita sociale diventa un progetto sul quale investire e lavorare.
Domenico Cisternino
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