Sono passati più di 700 anni dalla nascita di Francesco Petrarca, uno dei più grandi poeti del quattordicesimo secolo, bandiera d’orgoglio toscano ed italiano.
Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: “Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia”
da Francesco Petrarca, Ascesa al Monte Ventoso
Messo al mondo da esuli fiorentini ad Arezzo il 20 luglio 1304, Petrarca tra i tanti meriti ha anche quello di aver portato avanti una battaglia di libertà fondamentale: infatti a suo avviso non ci può essere progresso scientifico o cultura senza la possibilità reale di condurre i proprio studi in autonomia. Il poeta rivendica quindi la dignità della poesia, paragonandola alle discipline scientifiche quali la matematica o la medicina, in forte contrasto con gli esponenti della filosofia aristotelica e con i numerosi medici di allora.
Petrarca simboleggia un punto di svolta epocale, è considerato l’ultimo scrittore medievale, poiché il suo fondamentale apporto nella promozione di un nuovo movimento contribuì ad accelerare il crollo definitivo degli ideali medievali, che portò alla nascita di una nuova concezione: l’Umanesimo.
Benché gli anni precedenti alla nascita di Petrarca, che noi chiamiamo – spesso in maniera superficiale “secoli bui”, avessero in larga parte attinto dalle fonti antiche, non c’era ancora stato un movimento ispirato al mondo greco e romano, che si comprende essere un mondo ormai finito. Senza dubbio il poeta toscano rappresenta l’esponente massimo dell’umanesimo filologico, quella corrente che voleva guardare i testi antichi non attraverso le lenti della scolastica, ma nella loro forma originaria: «Le opere del passato sono come i fiori da cui le api traggono il nettare per fare il miele».
L’influenza classica è molto evidente nella sua attività letteraria, egli alterna la scrittura in latino alla scrittura in volgare. Anche Dante aveva utilizzato entrambe le lingue nella sua carriera letteraria, eppure le differenze tra i due poeti, anche in questa scelta, sono plurime.
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Se il Sommo Poeta prediligeva l’uso del latino per destinare le sue opere a un pubblico internazionale, elitario e di un rango privilegiato, mentre l’uso del volgare indirizzava gli scritti a lettori strettamente nazionali, a un pubblico vasto e non inquadrato in una definita classe sociale; il bilinguismo del Petrarca è vissuto in maniera totalmente diversa: il latino è lingua ufficiale (con questo scrive una quantità infinita di splendide opere), mentre la scrittura in volgare è rivolta a opere in un certo senso private, indirizzate a un pubblico limitatissimo. Mentre Dante quindi una volta pubblicata la sua opera lasciava che questa fosse copiata da altre mani affinché fosse diffusa, regalandoci quindi numerosissimi volumi dell’epoca dei suoi scritti in volgare, del Canzoniere petrarchesco si sono conservate solo due copie, scritte e firmate dall’autore stesso.
Parte delle opere scritte in latino da Petrarca riprendono e rielaborano in forme moderne le tematiche filosofiche delle correnti del passato, come ad esempio quella stoica, specialmente nella declinazione romana, riprendendo il lavoro di Seneca e Cicerone, spesso anche in maniera autobiografica.
Una delle opere più significative, proprio sul tema della ripresa dei classici, è L’Africa. Iniziato nel 1337, rigorosamente scritto in latino, con questo poema epico-storico che narra delle imprese di Scipione l’Africano, Francesco Petrarca si propone come il nuovo Virgilio. Egli considerava questa come il suo capolavoro assoluto, infatti l’opera (purtroppo incompiuta) assicurò allo scrittore fama internazionale e l’incoronazione di poeta al Campidoglio.
Eppure, a discapito del gusto stesso dell’artista, il suo lavoro considerato di maggiore rilievo è senza alcun dubbio il Canzoniere che racconta – per il tramite dei componimenti poetici – la storia della vita interiore del poeta in una sorta di diario, dove egli si racconta in prima persona.
In questa espressione di massima poesia, ritroviamo una figura che segnò e contraddistinse il Petrarca scrittore e uomo: Laura.
La Laura petrarchesca (un po’ come la Beatrice dantesca) è la giovane donna che il poeta vide solo una volta ad Avellino, colei che rifiutando il suo amore divenne sua unica musa. Ed ecco che nasce Erano i capei d’oro a l’aura sparsi.
Laura però è anche un escamotage poetico: lei, come tutte le donne amate, viene usata come mezzo per conoscere il mondo e se stesso. Il mito della donna permette l’esplorazione del tormento dell’individuo anche molto oltre le pene d’amore. La figura di Laura è comunque descritta in maniera austera: la donna che lo rifiuta spesso è apostrofata come «fera bella e mansueta» . Questa visione è destinata a mutare quando, nel 1348, ella viene a mancare. Da qui si aprono vari scenari, che dividono il Canzoniere in due parti: Rime in vita e Rime in morte.
Dopo la morte di Laura, Petrarca vede il mondo privarsi di colore, affoga nel rimpianto dei tempi passati, la sogna e incomincia ad idealizzarla. Qui infatti la descrive più mite, anche più bella alle volte, compassionevole verso di lui e meno altera che in vita.
In questo momento della poesia dello scrittore toscano, si percepisce un forte senso di angoscia causata dallo scorrere del tempo che, passando, priva l’uomo di ciò che di bello c’è nel passato, una visione della morte come qualcosa di oscuro e terrificante, poiché di essa non si conosce niente.
Francesco Petrarca fu senza alcun dubbio un maestro di cultura. L’Umanesimo non toccò solo i confini nazionali, ma arrivò in tutta Europa portando la riscoperta dei classici greci e latini in ogni dove. Di questo l’autore ne era parzialmente consapevole. Poco prima di morire, in una lettera a Giovanni Boccaccio, egli scrive: «Per impulso da me ricevuto molti oggi sono in Italia, e molti per avventura anche fuori, che presero a coltivare questi studi, negletti per tanti secoli».
Margherita Vitali
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