Ernst Wilhelm Wenders, meglio conosciuto come Wim, nasce a Düsseldorf il 14 agosto 1945. Figlio di un medico che vorrebbe vederlo seguire le proprie orme, inizia ben presto ad appassionarsi al cinema frequentando le lezioni dell’Institut des hautes études cinématographiques e a trascorrere, un po’ come François Truffaut, intere giornate alla Cinémathèque, dove arriva a “divorare” cinque film di fila.
Il riferimento a Truffaut non è peraltro casuale; alla fine degli anni Sessanta infatti, ed in particolare sulla scia della Nouvelle Vague francese, nasce in Germania il movimento del Neue Deutsche Kino, quel Nuovo Cinema tedesco che avrà tra i suoi esponenti Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder, Alexander Kluge e, appunto, Wim Wenders. Cineasti giovani e diversi tra loro, eppure accumunati dal desiderio di dare una svolta al cinema tedesco, da tempo fermo a modelli ormai desueti.
Della definizione che di questa generazione cinematografica danno Fofi, Morandini e Volpi, è senza dubbio interessante il tentativo, validissimo, di tracciare una distinzione sulla base delle peculiarità di ciascun regista. Ecco allora che Werner Herzog è il mistico, Fassbinder il melodrammatico, Kluge il dialettico e Wim Wenders l’antropologo del gruppo.
Denominazione assolutamente appropriata per un tipo come Wim, padre di un cinema sempre volto ad indagare in profondità ogni mutamento della condizione umana, un cinema fatto di spazi, di viaggi e tormenti interiori.
Dopo un esordio brillante con il lungometraggio Estate in città, gira La paura del portiere prima del calcio di rigore, sceneggiato con Peter Handke, l’amico scrittore che lo affiancherà in altri capolavori come Falso Movimento o Il cielo sopra Berlino. Il viaggio, tema centrale nella sua opera, è il filo conduttore della “trilogia della strada”, aperta da Alice nelle città e composta da altri due magistrali capitoli quali Falso Movimento e Nel corso del tempo. Una sorta di percorso immaginario quello narrato dall’autore, realizzato mediante il racconto di anime in perenne ricerca e scandito da angosce esistenziali che non trovano soluzione. Lo spettatore si interroga, insieme ai protagonisti, sul rapporto immagine-realtà, finzione-visione reale e finisce per accettare una non risposta magistralmente veicolata dall’enigmatica fotografia di Robby Müller. Ma l’opera di Wenders è anche riflessione su se stessa, un metacinema che non smette di indagare i rapporti tra i vari rami della Settima Arte. È così che L’Amico Americano (la cui scena finale con Bruno Ganz affacciato alla finestra a rimirar pensoso un aquilone è entrata di diritto nella storia del cinema) e Nick’s Movie – Lampi Nell’Acqua, raccontano la dicotomia fra cinema europeo e americano. Viene messa in scena la fine della Hollywood classica, pensata nel suo rapporto con il Vecchio Continente e in attesa di una morte incombente.
Ancora il viaggio è protagonista di quella che universalmente viene riconosciuta come la sua opera migliore: Paris, Texas. Un ennesimo racconto odeporico che è anche occasione per riflettere sugli affetti, sul rapporto genitori-figlio, sulla realtà sfuggente delle illusioni e sul dolore della rinuncia, altra costante nel lavoro wendersiano.
Versatile e geniale, Wim Wenders è in grado di passare con disinvolta facilità da un genere cinematografico all’altro, toccando livelli sorprendentemente alti nel documentario Tokyo-Ga, girato per celebrare la memoria del regista giapponese Yasujiro Ozu. Viaggiatore come i suoi personaggi, Wenders si spinge in Estremo Oriente per andare alla ricerca di quel Paese raccontato da Ozu, con la speranza (o forse illusione) di ritrovarlo intatto nel presente di fine anni ‘80. Una ricerca vana, che lo costringerà a riformulare le proprie certezze e che, proprio per questo, dà vita ad una pagina cinematografica toccante, intensa e per tanti versi più sincera di altre.
Ma l’universo dell’antropologo del Neue Kino è troppo vasto per poter esser compendiato in un’analisi sicuramente non degna della sua grandezza. Un uomo geniale sotto ogni punto di vista, entrato nell’Olimpo dei grandi che contano e che ha potuto permettersi anche qualche scivolone (The Million Dollar Hotel) per poi rialzarsi superbamente dando vita ad opere che, come Il sale della terra, s’interrogano su quale sia il ruolo del regista (e in assoluto dell’artista) quando crea, quando scrive, quando filma.
Un interrogativo forse centrale nell’opera di Wenders, regista ormai adulto che nonostante il passare del tempo e la commercializzazione di parte del cinema (compreso il suo), non smette mai di cercare quel contatto con gli esseri umani e il loro mondo privato e complesso. Proprio come aveva fatto a vent’anni.
Il film della settimana:
Paris, Texas
Girato negli Stati Uniti nel 1983, il capolavoro di Wim Wenders è una storia di perdita ed egoismo, di ossessione e sofferenza. Giocata sin da subito su contrasto e spaesamento, la pellicola mette in scena il vagare di Travis, uomo divorato dai sensi di colpa per non aver saputo trattenere a sé la donna amata. Cammina sui binari di una ferrovia tenendo in mano una tanica di benzina e sa, o crede, di trovarsi in quel deserto perché qualcuno, in passato, gli ha venduto per corrispondenza un pezzetto di terra dalle parti di Paris, Texas. Travis barcolla e cade, viene soccorso da un medico che gli trova addosso un foglietto con scritto un numero di telefono, quello del fratello. Quest’ultimo accorre, si precipita sul luogo per riportare indietro l’uomo che era sparito da quattro anni di casa. Ma Travis scappa, ha lo sguardo vitreo di chi non sa che fare eppure sente di dover andare, in un’America che sa di Jack Kerouac e che deve molto anche a Carver e ad Hopper. Comincia così un viaggio semi muto ed allucinante in cui il protagonista più che trovare qualcosa finisce per cercare se stesso, ridefinendo un contatto con la memoria, con il presente e con il vuoto che ha dentro. Travis è un uomo in bilico tra l’essere e il non essere, tra la concretezza e l’inconsistenza, destinato ad essere prigioniero di un cupio dissolvi difficile da fermare. In un viaggio da Los Angeles ad Houston con la macchina da presa costantemente puntata sulle insegne al neon, sui tramonti e le nuvole basse, Wenders pone in primo piano contemporaneamente paesaggio e volto, rispondendo a quell’ansia di rappresentazione umana che lo caratterizza. In un racconto quasi ad anello, il cineasta tedesco mette in scena un universo di sofferenza e dolore che, nonostante prema per sopirsi, finirà per dar vita ad un nuovo, e forse ancor più intenso viaggio rivelatore.
[…] – Arrivato in incognito in Piazza San Pietro per i primi sopralluoghi, Wim Wenders – regista, scrittore e fotografo tedesco – è ora nella capitale per filmare Il cielo […]
[…] – Arrivato in incognito in Piazza San Pietro per i primi sopralluoghi, Wim Wenders – regista, scrittore e fotografo tedesco – è ora nella capitale per filmare Il cielo […]
[…] Wim Wenders non è facile, tanto più se sei un esordiente e il tuo film è una scommessa apparentemente […]