Nel passato 2014 sono apparsi ben due film che vedono come protagonista l’eroe greco Eracle: l’uno intitolato semplicemente Hercules (in italiano, Hercules – Il guerriero) e l’altro The Legend of Hercules (in italiano, Hercules – La leggenda ha inizio), basato sulla graphic novel Hercules, la guerra dei Traci. E, tra commenti positivi per l’indubbia spettacolarità delle pellicole e le critiche di chi, un po’ purista, trova che riutilizzare il patrimonio del mito greco per produrre qualcosa di molto diverso sia deplorevole, si torna con la mente ad un altro film di un passato più o meno recente.
Undici anni sono passati dall’uscita di questo film – quasi quanti sono quelli coperti dalla vicenda che racconta – ma a volte se ne sente ancora parlare. Parliamo del colossal Troy, un film che ai tempi richiese uno sforzo economico di ben 180 milioni di dollari e che poteva vantare un cast di tutto rispetto con Brad Pitt (Achille), Eric Bana (Ettore), Orlando Bloom (Paride), Petero O’Toole (Priamo).
Fu sicuramente un grande successo per il pubblico; non altrettanto nel mondo accademico o, semplicemente, tra gli appassionati dei poemi omerici. Troy, infatti, portava sul grande schermo l’Iliade di Omero o, meglio, una vicenda ad essa ispirata. Perché con il poema epico sull’ira di Achille, in effetti, non c’entra molto.
Il film inizia raccontando l’antefatto della guerra di Troia: l’amore tra Paride ed Elena, il “rapimento” della donna, la furia di Menelao, l’organizzazione della spedizione da parte di Agamennone. Tutte cose appartenenti al mito greco, ma di cui nel poema non c’è traccia: anche una veloce ricerca su Wikipedia può facilmente confermare che, cronologicamente, l'”ira di Achille” ricordata nel primo, celeberrimo verso si colloca alla fine della guerra – 51 giorni prima della caduta della città.
Che dire poi dei vari personaggi che “lasciarono la giovinezza” sotto le mura di Troia? Un necessario espediente filmico per aggiungere pathos alla vicenda, ma nella realtà del mito (se mi si consente l’espressione che sembra contraddittoria) esse spazzerebbero via praticamente metà delle tragedie greche che ci sono pervenute.
Aiace viene ucciso da Ettore a nemmeno metà del film: e scompare con lui la tragedia di Sofocle, Aiace, appunto, che racconta il suicidio dell’eroe causato dal non aver ottenuto le armi del defunto Achille, assegnate invece a Odisseo. Muore anche Menelao, con una trovata assai pericolosa perché è lui, in pratica, il motivo per cui si combatte a Troia: anche qui vengono eliminati senza pietà almeno due libri dell’Odissea, nei quali Telemaco chiede notizie del padre proprio a Menelao, l’Elena, l’Andromaca e l’Orestea di Euripide. Infine muore anche Agamennone e questo sì che è tragico: via tutta l’Orestea di Eschilo, composta da Agamennone, Coefore ed Eumenidi, e via le due Elettra di Sofocle ed Euripide. Ed infine, l’amletico dubbio: ma nell’Iliade, si racconta poi della caduta di Ilio? No, non si racconta: la vicenda si ferma alla morte e ai riti funebri in onore di Ettore. Ma non il film, dove compare l’immancabile cavallo di legno.
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Dunque, che cosa rimane di Omero in Troy? Apparentemente poco. Eppure rendere fedelmente un capolavoro come l’Iliade sul grande schermo non è impresa da poco. Come introdurre i numerosi interventi delle divinità? Come soffermarsi sulle mirabili descrizioni omeriche, come quella, quasi pittorica, dello scudo di Achille o come il famoso Catalogo delle navi che illustra nel dettaglio l’esercito degli Achei? E infatti il regista Wolfgang Petersen e i produttori del film consapevolmente non hanno inserito in Troy questi elementi che pure sarebbero importanti ai fini della resa.
Ma qualcosa della grandezza di Omero è rimasto. È rimasta, ad esempio, la dimensione affettiva in cui è inserito il personaggio di Ettore, valoroso guerriero ma anche padre e marito amorevole. È rimasto il rimorso di Elena, che si rende conto di essere la causa di tanto dolore e cerca di consegnarsi all’esercito greco. È rimasto il sottile realismo di Achille, che afferma perentoriamente che “gli dèi ci invidiamo perché siamo mortali”, e che, piangendo sul cadavere del suo nemico, sussurra: “Ci rivedremo presto, fratello”.
Viene colta, insomma, anche se forse in modo imperfetto, la dimensione umana. Ed è forse questo che possiamo chiedere oggi al cinema e, più in generale, a chiunque si approcci al mito greco: non una fedeltà pedissequa, che forse risulterebbe pesante e un po’ sgradevole, ma la fedeltà ai valori profondi che il mito greco voleva comunicare. E che è, in fondo, il motivo per cui quelle che a volte a noi appaiono come semplici favole siano sopravvissute per secoli e per cui le sentiamo, ancora oggi, così nostre.
Silvia Ferrari
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