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La rappresentazione della realtà: «Il piacere dell’onestà» al Teatro Franco Parenti

2 minuti di lettura

La traduzione della realtà

L’ambiguità di una lingua costituisce in primo luogo la base per poter parlare della realtà senza tradirla, riuscendo a restituirla nel suo divenire sempre cangiante. La parola rappresentazione risente di tale equivocità di significato e la esemplifica icasticamente attraverso il vocabolo stesso e ciò a cui si riferisce.

 La rappresentazione consta infatti di una accezione mimetica, per cui quando si rappresenta qualcosa lo si imita, cercando di riproporlo secondo una somiglianza, anche metaforica o analogica, come può accadere per un pentagramma che riproduce le note, sostituendone il suono attraverso una notazione grafica.

In secondo luogo, rappresentare significa mettere in scena, ovvero non limitarsi a sostituire qualcosa, ma porlo in atto così da potervi assistere.

il piacere dell'onestà

La realtà della finzione

La messa in scena è in sé stessa realizzazione piena, così la scena teatrale si rappresenta così come un quadro consente di far vedere qualcosa che non c’è, tuttavia è presentato (rappresentato) e lo realizza, ponendolo appunto in scena, mostrandolo.

Non bisogna pensare a un rapporto biunivoco di rimando o corrispondenza denotativa, come una fotografia indica l’oggetto rappresentato; piuttosto come in un gioco, si rappresenta qualcosa attraverso un’azione di far finta, per cui si immagina qualcosa secondo determinate regole.

La messa in scena è una rappresentazione che si serve dell’immaginazione per costituirsi in maniera autonoma, tale da realizzarsi, ovvero porsi come realtà senza rapporto di dipendenza imitativa.

Rappresentare la realtà

Lo spettacolo teatrale mette in scena il testo, realizzandolo in forma attoriale, proponendo una nuova realtà, che non si limita a sostituire il mondo abituale, bensì crea uno spazio altro.

Il teatro di Luigi Pirandello esemplifica la rappresentazione in quanto realizzazione, trasformando il concetto di rappresentazione per cui la scena non imita la realtà illudendo gli spettatori attraverso un inganno immaginativo, non è una modalità per raffigurare il reale, bensì crea un ordine a sé stante, assimilabile appunto alla realtà del gioco.

Dunque, non si tratta semplicemente della rottura dell’illusione, in quanto la rappresentazione non è ingannevole, non è il luogo della commistione tra realtà e finzione, ma consente la realizzazione della finzione, ovvero di un fare finta di, come un gioco che segue le regole dettate dall’immaginazione.

La forma piena della rappresentazione

Così al Teatro Franco Parenti, la regia esemplare di Liliana Cavani, mette in scena Il Piacere dell’onestà, dal 2 al 12 maggio, realizzando il testo pirandelliano in una forma attoriale brillante, in una produzione Gitiesse Artisti riuniti in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana.

 La recitazione magistrale di Geppy Gleijeses e Vanessa Gravina, con Leandro Amato, Maximilian Nisi, Tatiana Winteler, Mimmo Mignemi, e Brunella De Feudis consente la creazione di uno spazio reale, in cui la vicenda umana posta in atto rispecchia perfettamente l’interrogativo implicito nella rappresentazione, per cui ci si chiede se sia possibile distinguere tra realtà e finzione, nella scena come nella realtà.

 I personaggi si destreggiano tra i propri ruoli di uomini e donne inserite nella società borghese di inizio Novecento riuscendo a raggiungere un livello di astrazione paradossalmente calato nella realtà umana, consentendo un’immedesimazione immediata da parte degli spettatori.

 

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L’autenticità dell’attore

Nel gioco della rappresentazione, la forma attoriale è destrutturata dall’ironia consapevole del ruolo imposto ad ognuno dalla società e viene infranta dalla sostanza squisitamente umana che anima i sentimenti autentici dei personaggi.

L’apparenza e la forma sono soppiantate dalla acutezza di una rappresentazione che crea un nuovo ordine di pensiero, che interroga la forma stessa estremizzandola con dialoghi apparentemente avulsi, in grado di mantenere in atto il paradosso della vuotezza di una forma imposta che ricopre il vuoto valoriale della borghesia italiana.

La finzione riesce così a porsi nella propria realtà e dunque anche nella contemporaneità del pubblico, entusiasmato dalla capacità di dialogo raggiunta da un testo imperituro, grazie a una forma tradizionale che, non tradendo le parole del grande autore, le traduce mettendole in scena.

Anastasia Ciocca

Instancabile sognatrice dal 1995, dopo il soggiorno universitario triennale nella Capitale, termina gli studi filosofici a Milano, dove vive la passione per il teatro, sperimentandone le infinite possibilità: spettatrice per diletto, critica all’occasione, autrice come aspirazione presente e futura.

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