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«Il lamento di Portnoy», l’imperativo categorico della ribellione sessuale

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Shiksa, la giovane in poliestere e gonnellina. Shiksa, wasp, figlia del Redentore, shiksa, creatrice di psicosi, nevrosi, incubi pre-freudiani, desiderabile perché legata imprescindibilmente a Edipo Re, dannata e dannazione al contempo. Shiksa, portatrice di libido sessuale, che travalica la quotidianità, la correttezza, la morale e l’etica, per inciampare nel sesso distorto, violento, anzitempo, dove unico carnefice e al contempo vittima è Alex, protagonista de Il lamento di Portnoy, romanzo di Philip Roth (acquista). Ebreo ateo, figlio di una madre troppo protettiva, di un padre troppo borghese, che è figura paterna mancante, uomo a metà. L’unica soluzione è la sovversione. L’unica strada percorribile è quella che giunge, infine, alla Libertà.

Il lamento di Portnoy

La religione ebraica della famiglia è un peso insostenibile per Alex. Cresciuto da una madre esageratamente apprensiva, dove ogni gesto compiuto dall’infante è causa-effetto del Male Universale, dove ogni sbaglio commesso deve obbligatoriamente gravare sull’umanità (morta e in vita), e dove ogni riuscita è esile baluardo in nome del Bene comune: procreare in segno di gratitudine per la Vita ricevuta dal Signore.

Alex ha un’unica via di fuga: il sesso. Imperativo categorico per lui, per uscire dagli schemi e andare contro l’insegnamento dogmatico, piccolo-borghese della sua famiglia che ha alle spalle il Popolo salvatore, e ancora prima il Signore, unico e innominabile. Quello stesso peso che gli provoca nevrosi, episodi onirici, ricordi macchiati dalle ignominie, che lo trasportano lungo disteso su un lettino. Lo psicanalista che, in silenzio, lo ascolta. Ogni sua delibera scelta fuori dai preconcetti impartiti lo caratterizza come individuo. Nella sua onnicomprensiva libertà non può smettere di sentire gravare sulle spalle il Giudizio Divino, che per lui ha le fattezze della madre che, con occhi da fanciullo deviato, non può far altro che guardare con libido e desiderio, causa di tutti i suoi Mali.

I sette vizi capitali

Tra i sette vizi capitali, l’ingordigia.
La Torah ha precetti specifici per ciò che riguarda l’alimentazione degli ebrei: il cibo che risponde ai requisiti è definita kasher. Vietata ogni tipo di carne che deriva da animali impuri, come quell’aragosta che Alex trangugia avidamente, simbolo della sua ribellione a tutto ciò che, sin dalla nascita, gli è stato imposto. Prima come ebreo, poi come figlio, per ultimo come facente parte di un’élite sociale che non può e non deve mischiarsi con ciò che è al di sotto.

Così per lui essere ebreo deve essere sintomo di orgoglio e purezza, mentre tutto ciò che ha a che fare con l’universo goy è terreno, meschino, deplorevole. Come lui, che fra i sette vizi capitali, quello che preferisce e che per lui è alfa e omega della sua esistenza, è proprio la lussuria.

Le Arayot – le relazioni proibite nell’Ebraismo – implicano relazioni così gravi che è preferibile la morte alla trasgressione. Ma in Alex la trasgressione è un bisogno assolutistico, dalla pre-adolescenza fino all’età adulta, disteso sul lettino dello psicanalista, dove chiede perdono ma al contempo giustifica ogni suo gesto apponendo ogni colpa alla Madre e al Padre.

Il naso pirandelliano

Sin dalla pre-adolescenza Alex avverte l’istinto primario: quello del sesso, del piacere carnale, dell’eccitazione giovanile. Il bisogno di possedere e, al contempo, essere posseduto. L’onanismo è il suo gesto di ribellione più puro. Sua madre, psicotica, apprensiva, troppo buona, troppo brava, troppo disponibile, lo rimprovera. Alex non trova altro sfogo se non commettendo l’atto impuro per eccellenza: la masturbazione. Deviante, deviatrice, sviante.

Ma sente anche il bisogno mascolino di possedere. E non possedere una brava giovane ebrea qualunque, così brava da poter essere sposata, così giovane da poter figliare, proprio come tanto vorrebbero i suoi genitori. Il suo bisogno spasmodico verte verso quelle giovani shikse, che i suoi genitori disprezzano, perché gli ebrei sono portatori di alta morale e alta etica.

Si rimira allo specchio, Alex, osserva il tratto distintivo del suo volto che lo marchia più di ogni nome, più di ogni regola, più del sangue stesso. Il naso adunco. Simbolo della sua prigionia. Quel naso tutto pirandelliano che è sintomatico della psicosi, del non-riconoscimento, ma che ha anche derivazioni erotiche, riconosciuto come prodotto culturale, dove rimane metafora fallica e, nell’elaborazione simbolica di Wilhelm Fliess, rappresenta anche la sede di luoghi genitali e regolarità delle periodicità sessuali.

La libertà

La libertà individuale e personale di Alex alberga nel piacere sessuale. La Torah recita: Siate fecondi e moltiplicatevi.

Alex non può sposarsi. Non vuole sposarsi. Per i suoi genitori è un fallimento, il fatto che il figlio non voglia trovare moglie, che si caratterizzi come individuo a sé stante, indipendente, bramoso, con il piacere delle donne che tutto gli nega e tutto gli concede al contempo. Nel 1970 è un richiamo alla Libertà assoluta. E’ un gesto che, per un giovane ebreo di buona famiglia, rimane macchia indelebile. Il fallimento della madre, la mancanza del padre, così giustifica Alex ogni gesto compiuto, ogni moto sovversivo, il suo essere ateo, socialista, desideroso. Ma per Alex il sesso è piacere e al contempo prigionia, perché è una dipendenza da cui non riesce ad allontanarsi. Quella stessa dipendenza che lo porta lungo disteso su un lettino e che lo contrappone al Signor Zeno, dove l’ultima sigaretta è contrapposta inequivocabilmente all’ultima scopata.

Un romanzo libertino

Il lamento di Portnoy è un romanzo osceno. Impossibile guardare alla bramosia di Alex senza scivolare nel commento giudizioso, alto-borghese, conservatore, che impone uno sguardo altezzoso rispetto alla bassezza degli impulsi reconditi del protagonista. Eppure, Philip Roth desidera far sorgere un dubbio amletico nella mente del lettore: essere o non essere puritano, è questo il dilemma. Essere o non essere libero. Dare voce o meno ai propri impulsi carnali, e quando avviene, se davvero è necessaria una giustificazione freudiana, una motivazione sociale, un significato culturale. Alex non lede nessuno fuorché sé stesso, nel dare voce ai suoi istinti più bassi. Portatore del sapere assoluto, figlio del Popolo salvatore, non può fare a meno di essere stigma per ciò che è nelle sue profondità. Eppure lui è e si percepisce come altro, indissolubilmente lontano dal modo in cui è stato cresciuto ed educato. Ma non può riconoscersi perché sulla sua testa pesa la sconfitta genitoriale di aver cresciuto un terribile ebreo, un terribile essere umano.

Philip Roth esaspera la sintomatologia tipica del suo tempo: la repressione sessuale. Ogni gesto, in Alex, è amplificato. Il semplice gesto della masturbazione di un adolescente porta con sé il significato intrinseco di una famiglia opprimente, di una religione obnubilante, di una mascolinità desiderata e di una femminilità mal interpretata.

L’unica soluzione auspicabile sarebbe incasellarsi nell’immagine protetta di un individuo normale, con ambizioni normali, desideri morali riconoscibili e accettabili, dalla famiglia, dalla società, dalla sua stessa cultura. Eppure, negli anni della rivoluzione sessuale, Roth dà voce a tutte quelle libertà che ogni fede cerca di incatenare, e lasciandole trasparire da un dialogo nevrotico con uno psicanalista che nulla dice e nulla giudica, dà potenza al richiamo istintuale dell’uomo libero. Un uomo che deve guidare un popolo alla libertà, quello stesso popolo che è morto in nome del Bene supremo e che ancora non è in grado di riconoscere nella Libertà il Piacere assoluto dell’uomo.

La malattia e la cura

Freudiana è la giustificazione ad ogni male compiuto. La società, la religione, la cultura, la tradizione pretende un comportamento che Alex, istintivamente, riconosce come impartito e non come naturale. L’unica cura alla malattia che è obbligato a sopperire – per volere altrui, non per volere individuale – è il riconoscere la libertà sessuale come libertà assoluta. Eliminare ogni dogmatismo, ogni individualismo, ogni precetto, per dare sfogo al gesto rivoltoso per antonomasia: la ricerca della libertà onnicomprensiva.

 

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Giulia Lamponi

Giulia, Bologna, studentessa di Lettere Moderne, amante della letteratura, aspirante giornalista. Ogni tanto scrivo, ma più che altro penso.

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