Direttamente ispirata allo scandalo delle “baby squillo” nel quartiere romano dei ricchi Parioli, Baby, annunciata da Netflix nel 2017, è una finestra su un mondo talmente altro da non apparire italiano. Uno squarcio non sempre deciso su una delle meno comprese e mal narrate generazioni d’adolescenti, la tanto oscura Generazione Z qui alle prese con una ricchezza dai risvolti angoscianti.
Teatro dell’opulenza velata
Diretta da Andrea De Sica e Anna Negri e pensata dal giovanissimo collettivo GRAMS*, Baby segue le vicende dell’istituto Collodi, il costosissimo Liceo privato nel cuore dei Parioli romani. L’atmosfera statunitense dai corridoi ampi, con sessioni di sport tra le lezioni e la divisa scolastica, crea un distacco notevole, come a ritagliare un mondo che per la sua agiatezza è di per sé altro da quello comune. Una lettura maggiormente maliziosa potrebbe vedere in questa costruzione degli ambienti un tentativo della serie di risultare meno locale possibile, ma sciocco sarebbe anche pretendere che i luoghi di questi ricchi ragazzi assomigliassero a quelli di tutti gli altri. No, i Parioli qui sono un enclave a sé, in cui i movimenti di macchina accerchiano i confini richiamando il videoclip, muovendosi tra le strade della capitale il cui montaggio evoca, dissolve e mescola i social attraverso un ritmo assieme indie e commerciale.
Tutto è confuso, tutto è moderno, ma tutto, al di là del portafoglio che delinea i tratti marcati di questo mondo presto grottesco, è anche normale. Così ci si trova inizialmente a seguire le più canoniche tra le questioni adolescenziali, tra Fabio, il figlio del preside che scopre la propria omosessualità, Camilla, l’amica femminista stereotipata sino all’osso, qualche comparsa utile a ricordarci l’arroganza dei famosi “figli di papà” ed infine, in un cambio di registro totale, le due ambigue protagoniste: Chiara e Ludovica. Sono loro a definire il taglio nella vela di questa realtà fittizia, smascherando le finzioni della ricchezza ed il pericolo della solitudine.
Dove finisca la cronaca ed inizi il racconto pare dircelo solo regia, abile nello scambiare lo stile televisivo di campi e contro-campi da sitcom per le più banali e ripetitive delle vicende, tendenzialmente tutte quelle che non riguardano le due protagoniste, con lunghe carrellate per i momenti invece più tesi, efficaci e, sfortunatamente, spesso marginali.
Lo sai tenere un segreto?
Così interpellava il trailer rivolgendo la propria prima attenzione ai dubbi di un pubblico confuso sul vero centro di questa storia. Da un lato infatti il cast e la cornice parrebbe invitare ad un’interpretazione tutta fondata sulle semplici questioni adolescenziali, dunque ad una lettura semplicistica di un mondo che proprio per la sua complessità vive spesso di semplificazioni, dall’altra però, magari per le musiche allucinatorie o per i vestiti troppo succinti, riverbera l’oscuro eco di fatti dal gusto thriller. Ecco allora che Baby si ritaglia un perimetro dai confini sempre meno decisi, in cui l’adolescenza incontra la prostituzione, passando però prima (o simultaneamente) attraverso fitte questioni più o meno moderne. Il burrone più ampio si palesa così dalla prima puntata, girandoci attorno con temi che spaziano dall’assenza dei genitori, i quali qualora presenti non possono che essere altro che coppie disfunzionali, alla solitudine dei social, al vuoto di una vita agiata priva di comprensione ed empatia. Da un lato l’adolescenza, dall’altro la prostituzione minorile. Due mondi apparentemente inconciliabili e tristemente incollati tra loro dalla cronaca da cui questa serie muove i propri passi, tendendo però troppo spesso a diluire la questione in sotto trame parallele spesso prive di mordente.
Troppe vicende, poco tempo
Ci muoviamo dunque nella Roma patinata e monumentale di cui già Suburra – la serie aveva accennato il marcio. Ma lì dove il monumento si stagliava nello sfondo, annacquando il conflitto mafioso, qui, tra l’opulenza pariolina, trova la giusta dimensione per inasprire il contrasto.
Un conflitto tra opposti riconciliati dalle scelte delle due giovani Chiara e Ludovica, interpretate dalle più talentuose attrici del cast; Benedetta Porcaroli e Chiara Pagani. Seguendo le loro vicende risulta piacevole lasciarsi trascinare da un racconto il cui climax ben sposa la forma seriale, invitando da un lato a proseguire lungo la storia, dall’altro a comprenderne le raccapriccianti evoluzioni.
Il problema è che nell’insieme intrecciato di questioni adolescenziali è abbastanza complesso tenere d’occhio il centro più interessante del tutto, ovvero il fatto di cronaca che ha ispirato la vicenda, ritrovandosi incastrati in un insieme sfumato e simultaneo di disturbi moderni.
I genitori e i figli sono così tutti piccoli simboli di una realtà contemporanea, non totalmente capaci però, a causa del poco tempo a disposizione, quando non per limiti attoriali, di dare un valore gerarchico e rispettoso dei disturbi messi in scena. Le problematiche individuali si avviluppano quindi in un tentativo di narrare l’oggi, allontanando però alla vista quella prostituzione minorile che, nonostante lo scalpore mosso in USA, appare solo nelle postille finali di puntate un po’ confuse.
Un lavoro non totalmente riuscito, capace di intrattenere e narrare vicende che solo se poste al vaglio di una successiva analisi si rivelano non sempre ben espresse; quasi fosse una canzone che nella sua mediocrità distrae con un movimentato videoclip.
Baby, lo scandalo fantasma
La serialità italiana ha iniziato a muovere i propri primi passi nel mondo della piattaforma di streaming più grande al mondo, Netflix, riuscendo nei suoi due iniziali tentativi a far discutere critici nostrani e d’oltreoceano per i particolari temi trattati. Ma lì dove Suburra – la serie riuniva tutti nella eticamente corretta messa in scena della realtà mafiosa, Baby, invece, scatena qualche piccola polemica di contenuto. La serie è stata infatti accusata dal National Center on Sexual Exploitation di «promuovere e celebrare la prostituzione, dando priorità al guadagno rispetto alle rimostranze di chi è davvero stato vittima di abusi».
A ben guardare al di là del soggetto andrebbe però sottolineato come la prostituzione abbia una minoritaria rappresentazione nel corso delle 6 puntate, spesso semplicemente accennata o posta come punto d’arrivo di altri eventi ben più pervasivi (e spesso fuorvianti). Come si possa inoltre pensare che una scelta narrativa che pone in luce una realtà di cronaca sia un invito e non una denuncia resta ancora da capire, posto anche che in una società occidentale fondata su etiche più o meno simili (vissute però a diversi gradi) ogni rappresentata distorsione è tendenzialmente un’accusa, soprattutto nei temi legati alla sessualità e ancora di più pensando al contenitore ampio, internazionale ed attento quale Netflix è.
Seppure da un lato si possa apprezzare il lavoro di monitoraggio svolto dal National Center non si può fare a meno di pensare come alcune accuse, quella a Baby in primis, si affaccino dunque su una possibile e pericolosa coercizione di contenuti grazie a cui, invece, alcuni temi vengono riscoperti e discussi dalla comunità.
Rendere limitante il racconto rende limitante la realtà da cui esso si ispira, sgonfiando le discussioni e facendo il gioco di chi vorrebbe semplicemente che a certa cronaca non si facesse riferimento. In una realtà così ben immersa nel racconto seriale appare corretto che si affaccino coloro che hanno intenzione di proporre visione scomode, non accomodanti, dando spazio a realtà che un tempo era ruolo del cinema raccontare e che ora, nella piccola rivoluzione narrativa a cui stiamo assistendo, entrano direttamente nel soggiorno di tutti. A volte bene, a volte male, a volte entrambi; come in Baby.