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Marina Abramovic è un’artista ma facciamo fatica ad ammetterlo

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Sono ormai passati i decenni in cui l’arte contemporanea era considerata un gioco d’aria fritta condensata in sculture aliene, spazi semivuoti, nudità esposte e vortici di colori contrastanti.

Ma se l’arte contemporanea è riuscita a scavalcare quella soglia di dignità che l’ha privata dell’aprioristico sguardo del cinismo, lo stesso non può dirsi della performance art, sviluppatasi concretamente nei ben lontani anni ‘60. E se i cultori della materia non possono fare a meno di associare alla performance art personalità come Hermann Nitsch, Fabio Mauri e Vito Acconci, comunemente, pensando a tale ambito, non si può non accostare a questa espressione artistica il nome cacofonico quanto ormai celebre di Marina Abramovic. Artista montenegrina, la Abramovic è celebre per sue controverse performance in cui, spesso, il dolore fisico è sputato in faccia allo spettatore, trascinandolo in una sindrome di Stendhal al rovescio: in questo caso è l’opera d’arte a patire. L’artista, tuttavia, non si è limitata a esporsi a un genere già di per sé sottoposto più degli altri al dubbio del valore artistico, ma ha cercato l’approvazione delle masse, attirando su di sé le perplessità non solo di chi di arte vive ma anche di coloro che di arte non comprendono nulla.

La fama

Ormai fuggita dalle stanze del semianonimato che normalmente ospitano chi fa dell’arte una professione, Marina Abramovic non ha resistito dal rendere se stessa un Che Guevara consapevole della propria portata mainstream. Quest’esito è stato certamente una conseguenza del suo porsi come perno di gran parte delle sue performance, ma, a un certo punto, al suo edonismo artistico si è affiancata l’effettiva scelta di essere un’icona. Così Marina Abramovic ha deciso di essere seguace di chi, già prima di lei, aveva scelto di primeggiare sulle proprie opere: l’aveva già fatto Oscar Wilde nella letteratura, Andy Warhol nelle arti figurative. Come loro Marina Abramovic ha pagato lo scotto del suo narcisismo: essere lei stessa la sua opera d’arte più famosa.

Il pop

Oggi si parla di lei più tra i profani che tra i critici d’arte. Le sue opere corrono sulle bocche come il racconto di una performance non più museale, ma da concerto: si accosta l’opera della Abramovic alle performance eseguite agli ultimi Grammy da Beyoncé o Lady Gaga. Di lei si commenta ormai il suo aspetto, per alcuni stranamente ringiovanito, o il suo vestito mentre la si vede in compagnia di celebrità dello star system. Si confonde e, confondendo, si distorce la natura di quello che la Abramovic fa. In questo status di erronea confusione tra celebrità e grandezza, l’artista è sottoposta a una denigrazione culturale consistente non nel porla sullo stesso piano di artiste pop, ma nel metterla sotto gli stessi riflettori del mondo in cui ha scelto di entrare: quello mainstream, dei social, quello in cui tutti possono dire la loro pur non sapendo. A questa scelta è poi seguita una sorta di ulteriore sdegno da parte del mondo dell’arte. Perché, diciamocelo chiaramente, c’è sempre un fondo di perversione che accompagna chi l’arte la fa e chi l’arte la studia, un pensiero di razzismo culturale, che è l’unico razzismo ad essere, se non lecito, almeno comprensibile. Ragion per cui se l’artista si confonde con altro, l’arte segue suo malgrado l’artista.

Marina Abramovic
La pop star Lady Gaga

La metamorfosi si è così compiuta. Partita come una divinità dai tratti indoeuropei, la Abramovic ha trascorso la sua gestazione in un bozzolo di tessuto Givenchy, fino a diventare una farfalla dalle ali di carta, la stessa delle riviste patinate su cui ha iniziato ad apparire. Non c’è dubbio che abbia commesso un errore di fondo nel rendere se stessa un personaggio che sovrasta l’artista. L’effetto, almeno a breve termine, è quello di una svalutazione artistica o, talvolta, di una valutazione che di artistico non ha nulla. Alla base di tale errore, il nobile intento di rendere un ambito tradizionalmente di nicchia meno elitario: le conseguenze sono, però, tragiche se solo si pensa che ciò che dovrebbe stare nei libri di storia dell’arte può ritrovarsi sulle pagine dei rotocalchi tra una storia da soubrette e l’altra.

Il punto più emblematico di questa storia di arte affossata è forse l’apporto di utenti che hanno iniziato a interessarsi alla Abramovic su suggerimento della pop star Lady Gaga. La cantante compare infatti in alcuni video, il cui numero di visualizzazioni è molto alto, in cui mette in pratica The Abramovic Method, una sorta di esercizio di concentrazione e realizzazione del proprio essere, suscitando l’interesse dei suoi fan verso l’artista montenegrina: è un dato di fatto, però, che se chiedessimo alla maggior parte di coloro che hanno condiviso tali video di riferirci di almeno una delle performance della Abramovic, non saprebbero far altro che sviare la domanda canticchiando il ritornello di una canzone di Gaga. Magari, paradossalmente, ci accennerebbero qualcosa di Born this way.

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Tutta questa sovraesposizione va ad alimentare il dubbio che già tradizionalmente permea la performance art. Se, infatti, nelle altre forma artistiche l’ispirazione si fa veicolare da un mezzo, quale la pittura o la scultura, nella performance art essa appare nuda e cruda: c’è solo il pensiero creativo attuato attraverso il corpo, il che lo rende soggetto al semplice quanto pericoloso pensiero dello spettatore “questo potevo farlo anch’io”. Ma se prima questo pensiero attecchiva solo nella mente di chi assisteva in prima persona alla performance andando a subire i suoi effetti primari e potendo dunque potenzialmente maturare la sensazione di essere in effetti davanti a un’opera d’arte, con la sovraesposizione mediatica ci si basa su una conoscenza sterile di quello che l’artista mette in pratica: conoscendo, ma non vivendo l’opera d’arte, la si mette ancor più in dubbio, non la si comprende, la si sminuisce. Ecco perché Marina Abramovic, pur essendo sicuramente più celebre di altri performance artist della nostra epoca, è però ancor più esposta all’ incomprensione.

Marina Abramovic
Marina Abramovic

Non può escludersi dalla fenomenologia del malinteso l’imitazione che, della Abramovic, ha dato più volte la comica Virginia Raffaele che, destinataria come noi tutti della fama pop dell’artista, ha giocato proprio sull’apparente carenza di arte delle performance. Senza nulla togliere alla bravura della Raffaele, la sua imitazione, seppur in piccolo, non ha fatto altro che gettare ancora più feccia sulla performance art, coprendola dello sminuente manto dell’ironia.

A poterci rincuorare dagli esiti nefasti della fama della Abramovic c’è almeno la consapevolezza che tutto ciò di cui abbiamo ragionato sia avvenuto, in gran parte, anche per volontà dell’artista stessa: il che ci autorizza, in qualche modo, a non provare la compassione che normalmente scaturirebbe verso chi si ritrova calato in un certo sistema suo malgrado.

The Artist is Present

La prova ci viene data da alcune parole che l’artista ha messo per iscritto nella sua autobiografia Attraversare i muri in relazione alla performance The Artist is Present, durante la quale, seduta su di una sedia per sette ore al giorno, ogni giorno, per tre mesi, l’artista ha fissato negli occhi migliaia di persone che hanno accettato di sedersi davanti a lei per qualche minuto:

«Io ero lì per tutti quelli che erano lì. Le persone mi aprivano il cuore e in cambio, ogni volta, aprivo il mio. Il dolore fisico che provavo era un conto. Ma il dolore nel mio cuore, la sofferenza dell’amore puro, era molto più grande. Ed era la sensazione più incredibile che avessi mai avuto. Non so se questa è arte dissi a me stessa. Avevo sempre pensato che l’arte fosse qualcosa di espresso mediante determinati media: pittura, scultura, fotografia, cinema, musica. E sì anche performance. Ma questa performance andava oltre la performance. Questa era la vita. Può essere l’arte isolata dalla vita? Deve esserlo? Cominciai ad essere sempre più convinta che l’arte deve essere vita, deve appartenere a tutti».

Che l’arte debba appartenere a tutti è un pensiero lecito, ma pericoloso. Con l’appartenenza a tutti si dà l’implicito assenso all’equivoco che ognuno possa praticarla e, dunque, ognuno essere artista. Non sapendolo, Marina Abramovic ha contribuito, da artista, a far sì che molti si credessero tali.

Ma l’arte, forse, è arte proprio perché di pochi. Lo diceva anche il compositore austriaco Arnold Shönberg: «Se è arte, non è per tutti. Se è per tutti, non è arte».

Gianluca Grimaldi

Napoletano di nascita, milanese d'adozione, mi occupo prevalentemente di cinema e letteratura.
Laureato in giurisprudenza, amo viaggiare e annotare, ovunque sia, i dettagli che mi restano impressi.

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