A sette anni dall’orribile attacco terroristico avvenuto in Norvegia il 22 luglio 2011 per mano del neonazista Anders Breivik, Paul Greengrassdecide di narrarne le conseguenze sociali, i risvolti politici e le ferite umane. Un film agghiacciante che risuona come avvertimento ad un’Europa confusa nelle parole di lucida follia di un uomo dagli occhi gelidi.
La cicatrice raccontata
Al di là di quanto potrebbe far pensare la precedente filmografia del suo regista, che spazia dal racconto della questione irlandese (Bloody Sunday), alla messa in scena del dirottamento di una nave mercantile (Captain Phillips), 22 July non è l’adrenalinica e appuntata ricostruzione degli eventi di quell’oscura giornata. A caratterizzare la nuova pellicola di Paul Greengrass è infatti la sostituzione delle dinamiche della ferita con l’analisi approfondita della sua cicatrice. Non l’attentato quindi, che pure è posto in scena nei primi veloci ed essenziali minuti, ma ciò che resta, approfondito con uno sguardo duplice sui sopravvissuti e l’attentatore. Si definisce così un lento e studiato accostamento di volti, a tratti interessato a mostrare l’assenza di vita negli occhi della violenza, in altri più concentrato sulla cecità di chi invece l’ha vissuta. Parallelismi costanti che man mano scalano la lettura della pellicola che, nell’avanzare del processo a Breivik, sembra accumunare le parti alle due anime di un’Europa tanto vera nella sofferenza delle famiglie quanto nascosta nelle parole della madre dell’attentatore: «non ha tutti i torti giusto? Qualcosa in questo paese non funziona per davvero» .
Le ragioni del carnefice
Ecco allora che ci troviamo ad ascoltare i lunghi monologhi di un uomo che chiamato a giustificare le sue azioni trasforma in propaganda ogni parola. Il manifesto dei «cavalieri templari» di quasi 1500 pagine viene raccontato così con una spaventosa lucidità, permessa anche certamente dal luogo del racconto. La lenta riflessione si dipana infatti nelle aule del tribunale a pochi giorni dal processo, lasciandoci avvicinare Breivik, interpretato da uno stoico Jonas Strand Gravli, affinché si provi l’orrore e la sorpresa di una violenza verbale che si spaccia politica e idea di mondo.
Parla come un Leader il carnefice dell’orribile tragedia, come se ci fosse una ragione, un perché da ascoltare ed accogliere. Un paradosso che è centrale nella narrazione di 22 July, il quale approfittando degli anni trascorsi della vicenda, e dell’evolversi delle sue conseguenze, vuole sottolineare, con la conferma di Greengrass, come «nel 2011 le affermazioni di Breivik sortirono orrore, oggi sono diventate mainstream»
Basato sul romanzo Uno di noi di Åsne Seierstad, 22 July è il dialogo più esplicitamente politico tra le opere presentate in concorso alle settantacinquesima edizione della mostra del cinema di Venezia. Non ci sono così i simbolismi velati del Suspiria di Guadagnino e nemmeno l’ironia della Favourite di Lanthimos. È diretto Greengrass e tenta di analizzare con precisione, ma ripetitiva superficialità, le faglie di un presente che gli appare così folle da risultare lucido, sempre però con quella speranza democratica e occidentale nel futuro della ragione. Meno efficace nei simboli del cinema d’autore, più corretto nell’analisi storica.