Giunta ormai alla sua settima giornata, la settantacinquesima edizione della mostra del cinema di Venezia propone ancora una volta un’obliqua riflessione sull’arte ed il (suo) mondo. Ma ciò che per il Van Gogh di
Julian Schnabel, in concorso con At eternity’s gate, è una sofferenza interiore messa alla mercé dello spettatore, per Florian Henckel Von Donnersmarck ed il suo pittore, già premio oscar per La vita degli altri, è il tentativo di ignorare quel dolore. Costruendo arte, lasciando il segno, dimenticando il mondo.
La Germania della politica, le germanie dell’arte
Pur narrando tre epoche della storia tedesca, Opera Senza Autore, è un film che mostra la politica solo e soltanto attraverso le vicende di un’arte in trasformazione. Un quadro veramente ampio, che nelle tre ore di visione viene sviscerato attraverso la vita sentimentale e artistica di Kurt Barnert (Tom Schilling). Uno studente di arte che, innamoratosi di una compagna dell’accademia, Ellie (Paula Beer), cerca la propria anima artistica combattendo contro i fantasmi di un passato fatto di orrori nazisti; tornati a galla a causa del misterioso legame che lo collega al padre della sua amata, un ex medico del tribunale di sanità ereditaria. Interpretato da uno splendido Sebastian Koch, assassino in incognito e forse vero protagonista di questo film dall’ordito a tratti hitchcockiano.
L’arte senza parola
Fondato quindi sulle macerie di un crimine a cui assistiamo nei primi minuti, il film è tanto per cominciare una buona e lunga riflessione sull’arte come figlia di un tormento incapace di divenire parola. Kurt è silenzioso, con un accenno di paralisi al labbro che sembra quasi invitarlo a non aprire bocca, a lasciare dentro ciò che cerca di ricostituire nel limite della tela e della sua mano.
«il talento dei geni è la crosta sulle ferite ricevute nella loro infanzia », ci ricorda Florian Henckel Von Donnersmarck citando il regista Elia Kazan. E di ferite ne vediamo molte lungo questa storia che non permette però mai a nulla, nemmeno alle più compassionevoli scene in ambiente nazista, di coprire quella scarica di energia che è la ricerca di una forma, di un’idea d’arte, di un qualcosa che riscatti non solo le vittime su cui osserviamo le ferite, ma anche i loro carnefici.
Un mondo in bianco e nero
Il film però, al di là di quanto detto dalla storia, non perdona nulla ai numerosi personaggi che di volta in volta troneggiano sui simboli delle germanie che si alternano, lasciandoci il tempo necessario per maturare il giusto disgusto per le loro parole, le loro movenze, il loro sorriso. Sembra quasi suggerirci che non ci sia differenza tra l’esaltazione del realismo socialista della Germania dell’est e il riconoscimento di un aberrazione nell’arte avanguardista da parte dei nazisti; ogni arte, sotto il potere, appare schiacciata, ed i suoi artisti finiti. Ecco allora che Kurt viene innalzato a silente salvatore della vicenda, trovandosi a tratti troppo coinvolto in situazioni che lo identificano come il buono assoluto contro l’ineluttabile male. Bianco e nero, dove le riflessione sull’arte si fanno quasi sempre interessanti, Florian Henckel Von Donnersmarck calca la mano su una divisione chiaro chiaroscurale del mondo; simbolo perfetto di una condizione storica, ma enorme freno per la sua analisi.
Opera senza autore è dunque un film che riesce a non far pesare la propria lunghezza attraverso la tensione posata nel primo lungo prologo, ma che spesso cade in un’ordinaria rappresentazione dell’arte e delle sue variabili. Prende, afferra, si lascia amare, assieme scolastico e stimolante, l’ultima opera di Florian Henckel Von Donnersmarck è un insieme pulsante di idee, non sempre svolte e spesso condotte da una regia senza inventiva, la quale fatica a tornare alla grande emozione de La vita degli altri (2006) ma che per fortuna si allontana dalla deriva di The Tourist (2010). Un buon ritorno, a momenti ottimo, per il regista inserito nella The Europe List, la maggior indagine sulla cultura europea ed i suoi esponenti.