Ad ampliare l’immensa schiera di film, corti e documentari sul mondo, più o meno interiore, dell’artista post impressionista arriva, in concorso al lido di Venezia, At eternity’s gate. Ultima fatica di Julian Schnabel, in concorso alla biennale del cinema di Venezia, e con protagonista l’immenso Willem Dafoe; riuscirà il regista-pittore a rinnovare una storia che, guardando solo all’anno passato, aveva già appassionato con il perfetto Loving Vincent?
«Volevo solo essere come loro»
È il più malinconico dei Van Gogh il primo narrato dalle rughe scavate di Willem Dafoe. E così il più abile a portare fuori strada. Perché a soffermarsi su queste iniziali sequenze di perdizione parrebbe immediato credere all’ennesima analisi per immagini del disturbo esistenziale dell’artista, eppure, Joel Schnabel, che ben sa di dover differenziarsi, scorre veloce su queste prime pagine per andare senza troppi fronzoli lì dove vuole costruire la propria storia: nella natura più pura ed affine all’animo dell’artista.
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È qui che Schnabel realizza un’opera meno storica, soggettiva e più ottimista, in cui è il vento, il grano e il respiro a raccontare l’artista come essere umano di questo ed assieme dell’altro mondo. Dove stia la verità passa velocemente in secondo piano, lasciando sia Vincent Van Gogh come simbolo di una riflessione sulla vita, e soprattutto sull’arte, a prevalere, anche con adeguate e mai fastidiose forzature. Per fare ciò siamo invitati a scorgere il mondo di Van Gogh dalla migliore delle prospettive, ovvero lontani dagli sguardi oggettivi della storia e immersi invece con una camera a mano che, sporcandosi con movimenti antitetici alla bellezza mostrata, si alternano a intense soggettive.
Due Van Gogh
Poter guardare come, e non solo con il pittore, permette di scoprire che quello posto in scena è un Van Gogh diviso in due. Da un lato il corpo, mosso dall’attore, dall’altro l’occhio, agitato dal regista. In mezzo noi, spettatori sorpresi da sguardi bagnati in filtri che modificano i colori rivelando l’origine di quelle pitture così vive.
Il quadro che (non) c’è
At eternity’s Gate (Sulla soglia dell’eternità) è un olio su tela dipinto da Vincent Van Gogh nel maggio del 1890. Proprio in quel periodo Vincent si trovava all’ospedale Saint-Rémy de Provence successivamente ad alcune crisi che, tra i vari folli gesti, lo portarono a tagliarsi un orecchio dopo la famosa discussione con il pittore, e fino a quel momento amico, Gauguin. È un momento cruciale per la vita di Van Gogh, ed il quadro, per il nome ed il soggetto scelto dal pittore, appare sottolineare la complessa condizione esistenziale vissuta dal pittore che, difatti, incontrerà la morte nella notte del 29 luglio dello stesso anno. Eppure, nel nuovo film che ne cita il titolo, il quadro non appare mai.
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Ce ne sono molti altri, dai più ai meno famosi, portati sotto braccio da un Van Gogh a volte più sognante che tormentato, ma At eternity’s gate no, seppur il periodo in cui venne dipinto sia tra i più centrali della messa in scena. A volerne scovare una cinica ragione si potrebbe pensare ad una svista, ma Julian Schnabel, già regista di un film biografico sulla vita dell’artista Jean Michel Basquiat, nonché egli stesso pittore, appare troppo coinvolto per lasciare qualcosa al caso. Guardando attentamente il suo nuovo lungometraggio si comprende così con piacevole sorpresa che il quadro appare, ma in maniera costante, ripetuta e nascosta. Il quadro è infatti il film stesso, dipinto da un Van Gogh che nel volto di Willem Dafoe si presenta perennemente sulla soglia dell’eternità, diviso tra una tensione alla bellezza della natura e rigettato a terra dalla debolezza della vita.
Perché Van Gogh, perché oggi
La storia di Van Gogh, così come tramandata in revisioni più o meno attendibili, è tra le più moderne ed accattivanti si possano narrare. È la storia di un’artista (incompreso), ma ancor prima di un uomo, nato nell’epoca sbagliata e comunque pronto a morire in essa per riscattare il mondo e l’arte che lo attende. Un cristo dunque (soprattutto nella lettura di Schnabel), rafforzato di una componente psicologica che ne complica la lettura, permettendo al narratore di turno di potersi concentrare sulla follia, sulla malattia o sulla sofferenza. Non ci sarebbe dunque alcun The imitation game o A beautiful mind se non ci fossimo prima letterariamente affezionati alla storia del primo tra i geni incompresi e sofferenti della modernità.
Un personaggio così fuori dal suo tempo da essere il doppio simbolico del nostro, inevitabilmente vicino allo spettatore e qui, nell’opera di Schnabel, At eternity’s Gate, tutt’uno con esso.