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La banalizzazione dello stupro

6 minuti di lettura

Da giorni, articoli di giornali e commenti polemisti e populisti si destreggiano nella sottile arte della retorica, impugnando il baluardo della ragione come arma di distruzione di massa. Il tema centrale – analizzato e sviscerato forse non così profondamente come necessiterebbe – è il rinvio della sentenza della Cassazione riguardo allo stupro di una giovane, perpetuato da due cinquantenni.

La sentenza ai due uomini segue il codice penale italiano, adducendo ai due la colpa di violenza sessuale, avendo abusato «della condizione di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto». (art. 609 bis cp) L’articolo stabilisce anche aggravanti alla violenza sessuale, come nel caso in cui la vittima sia sotto effetti di sostanze alcoliche e/o stupefacenti.

Così la recente sentenza della Cassazione fa scalpore perché, nonostante la vittima fosse sotto effetti di sostanze alcoliche, non essendole state somministrate a forza dai suoi aggressori, su di loro non ricade l’aggravante. Perciò il rinvio a processo per rivedere le condanne stabilite in appello ai due uomini.

Il Codice Penale Italiano

Guardando in maniera obiettiva la situazione: la legge è stata applicata. Non vi sono state infrazioni o favoreggiamenti. La nota all’articolo 609 recita: «È circostanza attenuante ad effetto speciale ex art. 63 che ricorre quando, con riferimento ai mezzi, alle modalità, alle circostanze dell’azione, si ritiene che la libertà personale o sessuale della vittima sia stata compressa in maniera meno grave.»

Di passi avanti ne abbiamo fatti, dal 1930, con l’istituzione del Codice Penale Italiano (anche detto Codice Rocco, dal nome del suo principale estensore, il Guardasigilli del Governo Mussolini), continuamente modificato nel corso degli anni. La stessa normativa sullo stupro ha avuto diverse modificazioni. L’originaria norma così recitava:

« Art. 519 c.p. Della violenza carnale. – Chiunque con violenza o minaccia, costringe taluno a congiunzione carnale è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi si congiunge carnalmente con persona che al momento del fatto:
1) non ha compiuto gli anni 14;
2) non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole ne è l’ascendente o il tutore, ovvero è un’altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, d’istruzione, di vigilanza o di custodia;
3) è malata di mente, ovvero non è in grado di resistergli a cagione delle proprie condizioni d’inferiorità psichica o fisica, anche se questa è indipendente dal fatto del colpevole;
4) è stata tratta in inganno, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. »

Solo nel 1996, la norma è stata modificata, passando dalla categoria di “Delitti contro la moralità e il buon costume”, alla categoria dei “Delitti contro la libertà personale”.

Così, ad oggi, il Codice Penale recita:

«Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatti;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.»

Aggravante o attenuante

La sentenza della Cassazione è stata rinviata in quanto le aggravanti non sussistono. In giurisprudenza, per ogni reato vi sono circostanze che possono verificarsi o meno in compresenza allo stesso reato. Si suddividono in aggravanti, quando determinano una maggiore gravità del reato, o attenuanti, che portano quindi ad una riduzione della pena.

Il caso giudiziario non è complesso: essendo la normativa chiara e precisando che, in mancanza di fatto e prova (ossia: i due uomini non hanno somministrato alla giovane sostanze alcoliche contro la sua volontà) non vi è aggravante, la Cassazione rimanda perciò la decisione in quanto sì vi è stata violenza, ma non fatto aggravante. Scopo della decisione della Cassazione è non far ricadere le colpe sulla vittima, ma anche tutelare l’imputato (dove entra in atto la presunzione di non colpevolezza: «l’imputato non è considerato colpevole fino a condanna definitiva»).

Perciò la decisione della Cassazione è regolare, ed inutile è urlare allo scandalo, inutile è la battaglia mediatica e inutili sono i ferventi commenti populisti.

La domanda fondamentale da porsi non è tanto per quale motivo sia stata presa una decisione del genere, ma per quale motivo è in atto una tale normativa, che se da una parte punta a difendere completamente la vittima, dall’altra crea disordini, e provoca reazioni altisonanti. Inutile è gridare: stiamo tornando indietro. Abbiamo legittimato lo stupro di gruppo.

Il punto della questione cambia profondamente alla domanda se sia accettabile che vi sia una riduzione della pena in quanto le sostanze che hanno inibito le capacità fisiche e psicologiche della donna non siano state somministrate dagli uomini, ma siano state assunte volontariamente dalla vittima stessa.

Tutelante è la decisione della Cassazione, nonostante abbia seguito un iter fin troppo familiare: i due imputati erano stati assolti in primo grado nel 2011, perché la donna non era stata riconosciuta attendibile; ma la Corte d’Appello di Torino a gennaio 2017 (ossia sei anni dopo le indagini preliminari) aveva valutato diversamente i referti medici, che evidenziavano segni di resistenza, ed avevano emesso la condanna a tre anni, con attenuanti generiche ed aggravanti. La Cassazione (sentenza 32462 della terza sezione penale) sottolinea che c’è violenza sessuale di gruppo con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica, anche se la vittima ha assunto alcol volontariamente, mancando le condizioni per prestare un valido consenso. (fonte: la repubblica.it)

La conclusione è chiara: in quanto vi è stata violenza, i due imputati sono colpevoli. Ma non dell’aggravante di aver indotto la vittima ad assumere sostanze che avrebbero alterato le sue capacità cognitive.

La cultura dello stupro

Il Foglio titola: “La sentenza sullo stupro è giusta”. Simonetta Sciandivasci scrive: «c’è un movente ideologico nella “cultura dello stupro” in cui, secondo alcuni studi femministi, siamo immersi, e che sarebbe indulgente verso i crimini sessuali. Più della presunzione con cui ognuno di noi pensa di poter maneggiare qualsiasi materia, diritto compreso, a pesare in questo nuovo episodio di fraintendimento paranoide c’è l’idea che le istituzioni agiscano attingendo da quella cultura.»

La cultura dello stupro descrive nella fattispecie «una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne». (wikipedia)

Negare l’esistenza della cultura dello stupro significa dare credito alla sua connaturata veridicità. 

La normativa in atto nel Codice Penale, seppur modificata, ha una base ideologica fascista imprescindibile alle spalle. Non deve fare scalpore l’attuazione di una norma in atto, deve fare scalpore la normativa in sé. Non deve essere modificata la procedura processuale alle spalle di un articolo del codice penale, deve essere modificato il codice penale. E ancora di più, l’ideologia alla base di questa normativa.

A tutti coloro che cercano giustificazioni, che tentano spiegazioni trasversali, che soprassiedono dinanzi alla realtà dei fatti: la cultura dello stupro esiste, è in atto, e prende potere ogni giorno. La demistificazione della donna, della vittima, dell’immagine della violenza sessuale, è un fatto accertato.

Entra in atto il concetto di cultura dello stupro in un processo che si allunga nel tempo per anni, in cui le sentenze si modificano vicendevolmente, partendo da un rifiuto categorico iniziale, ad una sentenza secondaria che adduce aggravanti agli imputati, fino alla decisione finale che provoca scalpore.

Il problema non è la decisione della Cassazione. Il problema è la normativa contro la violenza sessuale.

Il movimento femminista

Il Codice Rocco è stato modificato grazie al movimento femminista italiano, quel movimento che voleva essere parte integrante della società, soggetto attivo e politico, perché cittadine, perché donne, perché esseri umani. Così il movimento è diventato una lotta contro la società patriarcale, la stessa che aveva attuato la norma contro la violenza sessuale nel 1930, che parlava di delitti contro il buon costume, non contro la libertà. Soggetto agente si modifica nel tempo. La donna si fortifica, prende vigore, punta i piedi ed alza la voce. Non una di meno.

Il rinvio alla sentenza è un fatto storico. Lo è perché lo scalpore, il disagio e l’umiliazione deve dare voci ad orde di donne e uomini che puntino di nuovo i piedi, che alzino le loro voci, che non sia una voce di meno ma una voce in più, e che questa voce ponga fine ad una cultura che prostra l’immagine della donna, oggi come ieri, affinché domani sia diverso.

Il problema alla base del rinvio della sentenza della Cassazione non è il rinvio in sé, il problema è il motivo per cui vi sia la possibilità di seguire questo determinato iter giudiziario.

Perciò ecco la banalizzazione dello stupro, che ha ridondanza nella banalizzazione del male, perché lo stupro è stupro indipendentemente dallo stato della vittima. Poco importa che fosse ubriaca, che tentenni nel riesumare ricordi che le cambieranno la vita per sempre, che la renderanno vittima carnale, vittima sacrificale di un sistema sbagliato, di una cultura distorta che induce due uomini a credere di avere il diritto di ledere la summa libertà altrui per misero piacere personale.

Di conseguenza non deve creare scalpore il rinvio alla sentenza, come non deve farlo la decisione di non addurre l’aggravante ai due imputati, in quanto, a tutti gli effetti, non sussiste. Deve creare acredine invece la stessa normativa. Le voci che si sono alzate in questi giorni, tra chi ha gridato allo scandalo e chi, ancora, non ha voluto esimersi dal giudicare aprioristicamente, ricadendo nella mentalità onnicomprensiva di quella cultura dello stupro che, a più riprese, riemerge.

La decisione dei giudici nulla ha a che fare con la colpevolizzazione della vittima sacrificale. E nulla ha a che fare con la legittimazione dello stupro di gruppo. Non si stanno facendo passi indietro nella normativa a favore della tutela delle vittime dello stupro. Tutt’altro. Il punto focale della questione è lo stallo.  

 

Giulia Lamponi

Giulia, Bologna, studentessa di Lettere Moderne, amante della letteratura, aspirante giornalista. Ogni tanto scrivo, ma più che altro penso.

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