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L’Ombre des femmes

«L’Ombre des femmes» di Garrel: amore e tradimenti per un cinema d’attualità

Tra le pellicole più meritevoli e toccanti di quest’edizione del Festival di Cannes, è impossibile non citare «L’Ombre des femmes». Scopriamo di più riguardo la pellicola di Philippe Garrel

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5 minuti di lettura

Per chi non ne avesse mai sentito parlare, la Quinzaine des Réalisateurs è una sezione parallela al Festival di Cannes. Esiste dal 1969 ed ha il solo obiettivo di far circolare un cinema di qualità, arricchendo con ulteriori spunti di riflessione il panorama già nutrito del Festival. Quest’anno il film di apertura è stato L’Ombre des femmes di Philippe Garrel. Per molti critici, scontenti dei risultati e delle premiazioni «mal riposte», L’Ombre des femmes è senza dubbio una delle pellicole più meritevoli e toccanti di quest’edizione.

L’Ombre des femmes

Di una durata sorprendentemente corta per un lungometraggio – L’Ombre des femmes dura soltanto un’ora e tredici minuti – il nuovo lavoro di Garrel stupisce per gli ossimori, le ambivalenze e l’intensità con cui viene raccontata una storia comune. Pierre (Stanislas Merhar) e Manon (Clotilde Courau) si amano. Sono sposati e collaborano insieme: lui è un regista di documentari, lei la sua assistente. Vivono a Parigi, hanno pochi soldi e per sbarcare il lunario sono costretti a fare piccoli lavori di poco conto. Affittano un appartamento in centro, ma non hanno né tempo né voglia di dedicarsi alla cura della casa. Il proprietario dell’appartamento è scontento della loro condotta: pagano in ritardo e trattano la casa come fosse un campeggio. «Dovreste imparare a vivere da borghesi», urla a Manon dopo l’ennesima sfuriata. Lei ne è ferita, come se fosse la sua stessa identità a essere messa in discussione. I suoi valori, le sue attenzioni spaziano altrove. È una donna a suo modo realizzata, vive felice accanto al marito, anche se si trova spesso a dover dare spiegazioni sulla sua vita modesta, cercando di giustificarsi agli occhi della madre che non comprende questo suo «annullarsi completamente per un uomo». Ma Manon è serena, lavorare accanto a Pierre è l’unica cosa che pare contare, soprattutto perché considera il marito un artista, qualcuno in grado di parlare della contemporaneità con un linguaggio nuovo. La povertà è per lei una parentesi passeggera: è certa di un successo che a suo dire non tarderà ad arrivare.

Anche Pierre è innamorato di sua moglie, nonostante i comportamenti bruschi e il carattere introverso parrebbero raccontare spesso il contrario. Pare distante, a volte stanco o semplicemente svogliato, ma sembra a suo agio nella povera intimità che condivide con Manon ed è chiaro che la moglie rappresenti per lui un faro, un punto d’appoggio senza il quale si sentirebbe perduto. Eppure un giorno, appoggiato alle scale di un vecchio archivio cinematografico, incontra Elisabeth (Lena Paugam) ed è passione a prima vista. Lei vive sola, in una modesta chambre de bonne ossia un minuscolo monolocale all’ultimo piano di un palazzo. Nella stanza c’è a malapena lo spazio per il letto, un tavolo e pochi libri. Per entrare senza destare sospetti – comprendiamo che i proprietari abitano al piano di sotto e non gradiscono visite di terzi – si devono togliere le scarpe. Così Pierre entra – a piedi scalzi – nella vita di Elisabeth, dottoranda in storia, stagista all’archivio di cinema. Si vedono durante la giornata, per brevi momenti strappati alla routine quotidiana: è un amore veloce, di poche parole, lo schema si ripete sempre identico. Pierre senza scarpe entra dalla porta, Pierre fa l’amore con Elisabeth senza sprecare troppe parole e poi riparte, rivestendosi d’un fiato, senza aggiungere altro. La ragazza si innamora di lui, ma senza illudersi: l’uomo è stato chiaro sin dall’inizio circa il suo matrimonio. Ma Elisabeth comincia a spiare i suoi movimenti, non resistendo alla tentazione di conoscere più in profondità la vita dell’uomo che ama. Un giorno, appostandosi fuori da casa sua, lo intercetta con la moglie. È sorpresa dalla bellezza di lei, ma non dice nulla. Qualche tempo dopo, però, risalendo le scale del métro, rivede Manon, questa volta in compagnia di un uomo. Comprende che anche lei tradisce il marito e allora si sente libera di confessare a Pierre la verità, sperando forse in un cambiamento di rotta da parte sua.

L’Ombre des femmes

Queste sono le dinamiche brevi, semplicissime, attorno alle quali Philippe Garrel costruisce un film asciutto e atemporale. Si parla di ossimori perché se da un lato la passione dei corpi sembra essere al centro della scena, dall’altro si hanno lunghe carrellate silenziose, momenti di impalpabile delicatezza, conversazioni lievi, a voce bassa, poche scenate e litigi moderati, pieni di eleganza. Garrel è rimasto forse uno degli ultimi registi a rifiutare l’uso del digitale. I suoi film sono ancora costruiti su pellicola ed è per questo che il bianco e nero, impreziosito da un ottimo direttore della fotografia (Renato Berta), appare così vivo e vibrante. La forza del film sta proprio nelle immagini, capaci di raccontare una storia slegandola dalla nostra contemporaneità. Parigi stessa è ritratta nelle sue vie secondarie, con i marciapiedi deserti e i muri attraversati da graffiti veloci, segni tangibili di una periferia lontana dai clamori della grande ville. I caffè dove si scoprono amori, si consumano carezze e sguardi fugaci che raccontano di solitudini e di fragili malumori, paiono gli stessi ripresi nel celebre La maman et la putain di Jean Eustache, solo che con Garrel siamo nel 2015 e non nel lontano 1973.

In un intervista realizzata dal critico Jean-Sébastien Chauvin, il regista definisce la scelta del bianco e nero su pellicola come una necessità. In tempi di ristrettezze economiche – Garrel vive realmente in una forma di povertà che rima con l’impegno politico – è necessario ottimizzare i tempi, accorciare i costi di produzione. Il bianco e nero, per esempio, non è soltanto uno strumento poetico, ma diviene un escamotage per risparmiare sul materiale tecnico come nel caso di luci, trucco delle attrici, inquadrature di interni ed esterni. Al contempo fornisce la possibilità di «girare senza preoccuparsi dell’armonia cromatica degli ambienti, poiché unifica e livella tutto quanto»[1]. Si possono quindi filmare spazi che di per sé parrebbero vuoti, squallidi e forse tristi, ma che divengono improvvisamente portatori di una storia, carichi di metafore che vanno oltre l’oggetto comune, oltre ciò che c’è di abituale e conosciuto. Artista, per Garrel, è colui che in caso di guerra, disperazione o carestia, continua a fare il suo mestiere, sia esso pittura, scrittura o, come nel suo caso, cinema. È colui che segue il vento della storia, capace di vedere ciò che altri sono incapaci di scorgere, ciò che è parte della vita eppure pare sconosciuto. È questa la «cinepresa d’attualità»: un oggetto in grado di catturare il vero, di ritrasformarlo slegandolo dai nostri parametri comuni – la stessa vicenda raccontata a colori avrebbe certamente assunto dei toni più banali – di assumere un impegno politico nei confronti dello spettatore, facendo del cinema un mezzo per interpretare i segni del nostro presente, leggerli attraverso il filtro del distacco e dell’atemporalità.

L’Ombre des femmes

Gli amori e i tradimenti di Pierre, Manon ed Elisabeth non sono un fatto nuovo, sono figli di un cinema e di una letteratura che suona molto familiare, che parla al pubblico attraverso dinamiche già conosciute. Ciò che colpisce di L’Ombre des femmes non è la vicenda, ma piuttosto gli sguardi dei personaggi, la disperata ricerca di verità di tre attori talentuosi e l’occhio vigile di un regista che racconta una storia – quella di tutti –, perché ciò che conta di più, oggi, è fare un «cinema d’analisi» e d’osservazione in rapporto alla nostra vita e a quella delle persone che conosciamo. Così com’è, senza scarti, senza necessità di ulteriori finzioni.

di Ilaria Moretti

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[1] J. S. Chauvin, «Une caméra d’actualités: Entretien avec Philippe Garrel», Cahiers du Cinéma, n° 711, mai 2015, p. 30.

Redazione

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