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Santa Estasi. “Ifigenia in Tauride” o l’aspirazione cosmica

3 minuti di lettura

La tragedia euripidea Ifigenia in Tauride viene spesso catalogata nella fase degli intrecci quasi romanzeschi. Scopriamo che nella lontana terra dei Tauri la sacerdotessa di Artemide è Ifigenia, che non è morta in Aulide nell’empio sacrificio del padre ma, salvata dalla dea (al suo posto è stata immolata una cerva), è stata trasferita in questa terra remota. Si delinea un paradosso: colei che è stata immolata, ora è preposta proprio ai riti più barbari, i sacrifici umani di stranieri. Intanto, per ordine di Apollo, Oreste e il fedele Pilade sono approdati su questi lidi e la purificazione definitiva avverrà solo se riusciranno a impadronirsi della statua della dea.

In questa settima tappa del Progetto Latella la scena è praticamente vuota. Il tavolo dell’empio banchetto di Tieste, a segnalare che il passato della casata incombe anche su Ifigenia, intrappolata nella catena del sacrificio, visibile per metà, come un mostro che espone il proprio orrido sembiante. Nel buio si staglia una figura nuda, fragile ma decisa, che si lava, in un rito lustrale che è forse anche il tentativo (vano) di ripulirsi dalle lordure dell’empia stirpe, un filo rosso dell’intero spettacolo.

Nell’adattamento di Silvia Rigon si riconosce una partitura a tre respiri: il primitivo-terrestre, il fluido-avventuroso e il cosmico. Comicità rozza e terrigna è quella ricreata dalla figura del bifolco, testimone degli eventi, un efficace Ludovico Fededegni, impegnato in un pastiche linguistico esilarante, con accenti alla Abatantuono, tifo da stadio («Viva Tauride, abbasso Grecia») e sgrammaticature da selvaggio. Il tessuto di peripezie, fra gli alti e bassi imprevedibili del destino, è percorso da una vena di leggerezza. L’affiatato duo Oreste-Pilade è in perenne movimento (esplorazioni, corse, fughe, nascondigli), in un andirivieni alla ricerca di una stasi risolutrice. Sono stranieri impauriti e cauti, catapultati in un mondo ignoto: Oreste (Christian La Rosa) è ancora tormentato a tratti dalle sue Erinni, Pilade (Andrea Sorrentino) ha la capacità di razionalizzare e di pianificare l’azione. Un’unica certezza li sostiene: la forza dell’amicizia.

© Brunella Giolivo

I limiti della scienza

Il tratto più originale che diventa cifra di questa rilettura è però nel terzo aspetto, l’aspirazione cosmica. Re di Tauride è il sofisticato e malinconico re Toante (il convincente Leonardo Lidi). Non a caso questa terra viene chiamata isola, connotata da un esotismo misterioso che ricorda i romanzi di avventura, ma soprattutto lo sforzo di concepire un mondo nuovo, simile alla Tempesta shakespeariana. Se Prospero affidava alla magia i suoi sogni di una società ideale ma separata, Toante è invece il prototipo dello scienziato. La statua della dea Artemide è sostituita da un telescopio, strumento quasi feticistico che spalanca i reami della conoscenza (e ci ricorda figure epiche come il Galileo di Brecht, indomabile lottatore per il trionfo della razionalità). Ifigenia (una riflessiva e sensibile Federica Rosellini) comincia a nutrire dubbi: rinfaccia al re la staticità della sua scienza, che parte dall’analisi dei cadaveri. A questa staticità Ifigenia oppone la vibrazione della materia cangiante e viva, quel grumo di materia e spirito imprevedibile che è l’uomo. Lei crede invece nella molteplicità dei punti di vista e nella necessità del dubbio e della domanda etica, ricama un inno alla bellezza come flusso mutevole e non fossilizzato.

In questo balletto di dense argomentazioni che toccano temi di grande attualità sui limiti della scienza, i due personaggi passeggiano lungo il perimetro della scena, con soste meditative, di fronte ai due enormi specchi. Per procedere nella profondità della ricerca e andare oltre la superficie, occorre infatti porsi la domanda sul sé: chi siamo? Per Ifigenia specchiarsi significa farsi domande sul passato (la propria stirpe maledetta) e sulla possibilità di un futuro “liberato”. Per Toante l’interrogazione sul sé porta al dubbio e a un nuovo sogno. Non porrà ostacoli alla partenza della sacerdotessa e anzi le donerà il telescopio: la luce della ragione, diffusa da Ifigenia, potrà dare un’altra prospettiva sulla realtà e sarà forse lo «strumento giusto per far risorgere la casa dei padri». I tre Argivi partono (e non a caso la via di fuga è uno scivolare lungo il tavolo) con la speranza della palingenesi.

Un epilogo inquietante

Interessante è il finale. Sulla scena deserta resta Toante, malinconico e pensieroso. Con lentezza si dirige alle tre porte e le chiude a chiave. Sta serrando per sempre il passato di empietà? C’è dunque speranza che con questa tragedia la casa degli Atridi abbia finalmente pace? L’ultimo gesto, solenne, è fondamentale: si avvicina al forno e lo apre. Un gesto simbolico, che pone in comunicazione passato, presente e futuro: infatti egli è Toante, ma è lo stesso attore che impersonava Agamennone e Atreo. «La storia si ripete, Ifigenia» le diceva poco fa. Da questo forno è uscito il banchetto empio. Una circolarità paradigmatica e inquietante: il passato può ancora cannibalizzare il futuro.

Santa Estasi. Ifigenia in Tauride
da Euripide – adattamento di Silvia Rigon
regia di Antonio Latella
produzione ERT 2016
visto il 24 maggio 2018; replica: 27 maggio 2018 h 18.50, Piccolo Teatro Studio Melato, Milano

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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