La concreta ed effettiva portata di un evento spartiacque di una storia, qualsiasi storia, è difficilmente percepibile in diretta. Tutto quello che succede a posteriori è ciò che conferisce all’evento una certa rilevanza. La storia, spesso, ci passa davanti senza che ci accorgiamo concretamente di quello che sta succedendo, per una svariata serie di motivi che hanno molto a che fare con la nostra impossibilità di prevedere con certezza il futuro, ma solamente vagliare una vasta gamma di soluzioni possibili. Saggezza popolare alla mano, la storia non si può fare con i se e con i ma, eppure noi uomini abbiamo sempre cercato di immaginare futuri contingenti in cui, a un determinato bivio, il mondo e l’umanità avrebbero potuto intraprendere un cammino differente. Se non ci fossero state Poitiers o, secoli dopo, Lepanto, oggi parleremmo arabo? Se Alessandro Magno non fosse morto a 33 anni, il mondo sarebbe diventato un vasto impero universale, senza barriere e confini? Se Isabella non avesse avvallato l’idea strampalata di un noto marinaio genovese, quale sarebbe la percezione di noi europei di quell’enorme continente al di là dell’oceano Atlantico? E se Gino Bartali, in una mattina di luglio del 1948, non si fosse svegliato con un preciso obiettivo nella testa, come sarebbe, oggi, il nostro paese?
14 luglio 1948
La trama della vicenda è abbastanza conosciuta, almeno nella sua struttura principale. La seconda guerra mondiale era terminata da troppo poco per poter cercare una qualsiasi speranza nel futuro. Il paese da un paio di anni si era dato una forma repubblicana, in seguito a un referendum su cui ancora adesso si assecondano numerose voci sull’effettiva regolarità. È il 14 luglio, ma per noi che transalpini non siamo, è una data come le altre: niente marsigliese, né celebrazioni sugli Champs Elysée. A Montecitorio, però, al termine di una seduta parlamentare apparentemente dozzinale, si odono quattro colpi di pistola.
A sparare è il catanese Antonio Pallante, nome che resterà impresso per decenni nella memoria collettiva nazionale. Venticinquenne, studente di giurisprudenza, aveva da poco comprato per poche lire la pistola al mercato nero. Viaggiò dalla Sicilia a Roma con il preciso scopo di mettere in funzione l’arma appena acquistata. Già, ma chi era l’obiettivo? Alle 11:30 di mattina del 14 luglio 1948 un colpo di pistola si infranse su un cartellone pubblicitario, gli altri tre colpirono schiena e testa di Palmiro Togliatti, segretario del PCI.
La corsa in ospedale e la successiva operazione fecero da cornice ad alcune ore e giorni drammatici, tra i più tesi della storia repubblicana. Il terrore della violenza del secondo conflitto mondiale era ancora troppo fresco per essere cancellato, il Paese stava vivendo momenti di autentico panico, dimenticandosi di ciò che accadeva oltralpe, fino a quel momento l’evento principale di quel luglio afoso. Sulle strade del Tour, Gino Bartali, ormai 34enne, faticava enormemente a tenere il passo dei più giovani sulle complicate pendenze alpine. L’ultima vittoria italiana al Tour de France risaliva esattamente a dieci anni prima, con lo stesso Bartali che sfilò in giallo per le vie di Parigi. Ripetere una impresa del genere sembrava, apparentemente, impossibile.
La storia
Gino Bartali è stato, fino a quel momento, uno dei più grandi atleti italiani di sempre, nonostante abbia perso gli anni principali della sua carriera (quelli in cui uno sportivo fisiologicamente dà il meglio di sé stesso, ovvero a cavallo fra i trenta) a causa del secondo conflitto mondiale. Proprio in quel periodo, si scoprirà decenni dopo, Gino ha continuato ad allenarsi in bicicletta trasportando, all’interno della canna del suo mezzo di trasporto, fotografie e altri documenti necessari agli ebrei presenti sul territorio italiano per ottenere un’identità falsa e fuggire dalla persecuzione fascista.
«Il bene si fa, ma non si dice» rivelò un anziano Ginetaccio, quando, finalmente verrebbe da dire, vennero rivelate a tutti le sue gesta eroiche durante il conflitto. Ma tornando a quell’estate del 1948, come si è detto, nessuno avrebbe scommesso una lira, o un franco francese, su Gino Bartali. Vecchio, imbolsito, costretto a subire un clima di ostilità da parte dei francesi, dopo le prime tappe si ritrovò a oltre venti minuti di distacco dalla maillot jaune: il transalpino Louison Bobet. I francesi già pregustavano l’ennesima vittoria di un figlio di Marianna, ma non avevano ancora fatto i conti con il cuore di un campione.
Come si è detto l’attentato a Togliatti avvenne il 14 luglio, giornata di riposo per i ciclisti impegnati al Tour. Il giorno successivo andò in scena una tappa che rimarrà nei libri di storia dello sport italiano: dalla croisette di Cannes il gruppo, toccando svariati colli tra cui il mastodontico Izoard con il suo paesaggio lunare interamente vuoto di vegetazione, si diresse verso Briançon. Proprio sul Col de l’Izoard, Gino Bartali sferrò l’attacco decisivo che costò caro a chiunque, specialmente a Bobet che perse svariati minuti ma mantenne, seppur per poco, la maglia gialla. Il vento sembrava essere cambiato, anche se nel ciclismo nulla è dato per scontato: Ginetaccio non era più giovanissimo, sarebbe riuscito ad attaccare di nuovo il corridore francese, dopo aver faticato così tanto per rientrare in classifica?
Il mito e la leggenda
Nel frattempo, al di qua delle Alpi, la situazione era estremamente seria e grave, con buona pace del grande Ennio Flaiano. Il paese ribolliva di proteste e cortei, improvvisati e quindi difficilmente gestibili, in seguito all’attentato a Togliatti. Da Roma e Torino, passando per Livorno e Genova (città natale del segretario del PCI) si assistette a scene di guerriglia che richiamarono alla mente presagi di guerra civile. L’Italia, mai come questa volta dopo il secondo conflitto mondiale, apparve una nazione estremamente divisa. In poche ore si contarono undici morti e decine di feriti. Il Paese era uno specchio frantumato in centinaia di pezzi. Serviva qualcosa, o qualcuno, che riuscisse nell’impresa di rimettere insieme il tutto. Togliatti stesso ha sempre saputo quanto lo sport sia fondamentale nel testare gli umori di un popolo, d’altronde fu proprio lui, con sagace ironia, a sibilare «Come puoi pensare di fare la rivoluzione senza sapere quanto ha fatto la Juventus?»
La sera del 15 luglio, nella camera d’albergo di Briançon squillò il telefono. Un protagonista della conversazione è facilmente intuibile, l’altro un po’ meno: si trattava nientemeno che Alcide De Gasperi, primo presidente del consiglio italiano. Cosa si siano detti di preciso non si è mai saputo, ma fondamentalmente il segretario della DC invocò a Gino un’altra impresa, nonostante le fatiche, le scorie, la vecchiaia. Vinci questo Tour dopo dieci anni, per favore, fallo per te stesso, fallo per noi, fallo per questo maledetto e intricato Paese. Ma ti prego Gino, torna in Italia con la maglia gialla.
Il giorno dopo Bartali montò in sella alla sua bicicletta e dopo 263 chilometri arrivò per primo sul traguardo di Aix-les-Bains conquistando tappa e leadership. Quella maglia, ovviamente, l’avrebbe portata fino a Parigi, fino alla passerella finale sugli Champs-Elyséee, facendo incazzare parecchi francesi. Nell’ultima settimana di corsa gli italiani non mollarono di un secondo le rispettive radioline per sapere e conoscere le gesta del grande Gino. In pochi giorni il clima nel Paese si rasserenò, cessarono le manifestazioni di piazza, la rabbia si affievolì e la situazione divenne, in sintesi, più quieta e ragionevole. Come se, grazie a Gino Bartali, i cocci di vetro si fossero piano piano rimessi ognuno al proprio posto.
Rientrato in Italia, Ginetaccio venne accolto trionfante da Alcide De Gaspari, il quale chiese al corridore fiorentino cosa avrebbe voluto come regalo.
«Mi permetta signor Presidente, se fosse possibile vorrei non pagare più le tasse».
Probabilmente non venne mai accontentato.
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