Quasi si trattasse di una semi-divinità, per secoli è stata d’auspicio al culto hindu di Shiva, Kali e Bahuchara Mata. Si tratta della comunità Hijra, le cui prime testimonianze si hanno già nel ben noto testo del Kama Sutra (IV secolo a.C.). Una realtà collettiva che ha visto mutare il proprio ruolo socio-culturale nel corso della storia.
È difficile definire il territorio di appartenenza degli hijra, perché non si tratta di un popolo, né di una classe sociale, né di un’etnia. O per lo meno: così non dovrebbe essere definita. Sotto il nome di hijra confluiscono infatti eunuchi e transgender: la loro scelta non è solo dettata dal misconoscimento delle due categorie maschile-femminile, ma anche da una ragionata presa di coscienza, dalla consapevolezza cioè di appartenere ad un patrimonio sociale e religioso delle tradizioni indiane. Gli hijra appunto, in passato stimati sacerdoti e sacerdotesse della fertilità.
In un certo senso, per noi occidentali è una prospettiva affascinante, è naturale che quel po’ di esotismo orientaleggiante ci pizzichi la curiosità; però badiamo a non sovrapporre la complessa alienazione vissuta dagli hijra con le istanze dei movimenti europei LGBT. Non è che non abbiano punti in comune, anzi: è chiaro che in entrambe i casi si assiste all’emarginazione di una collettività di umani. Ciononostante, nel caso indiano si aggiunge anche l’eliminazione della sacralità di una subcultura ed è bene, perciò, tracciarne una brevissima linea storica, per capirne l’evoluzione.
Come si è detto poco sopra, gli hijra erano venerati dalla cultura indiana: i testi sacri del Ramayana e del Mahābhārata celebrano, tra l’altro, gli eunuchi. La colonizzazione britannica è all’origine dell’emarginazione di una delle più grandi e antiche comunità transgender del mondo: nel 1897 viene emanata una legge che dichiara illegali le pratiche omosessuali e, nel giro di un secolo, la Corte Suprema indiana reintroduce il reato di omosessualità nel Dicembre 2013, in risposta ad una causa collettiva presentata nel 2012 da alcuni attivisti. Infine, il 15 Aprile 2014 i giudici della medesima Corte accolgono le richieste delle associazioni cassate dalla sentenza del 2013: protezione dei diritti dei transessuali e inclusione di una terza categoria sessuale nei documenti legali, come passaporto, certificato elettorale o patente. L’esito positivo del 2014 dichiara che i transgender devono avere gli stessi diritti della Costituzione di cui possono godere gli altri cittadini e che devono essere considerati «come classi socialmente ed economicamente arretrate». Pertanto la pronuncia si riferisce unicamente a chi ha assunto caratteristiche fisiche del sesso opposto, gli omosessuali sono tuttora ignorati.
Oggi gli hijra – che si aggirano attorno ai tre milioni solo in India – si guadagnano da vivere cantando e ballando ai matrimoni e ad altre cerimonie, assicurando con la loro benedizione un futuro prospero per la famiglia che li ha invitati. Ma la maggior parte di loro è costretta all’elemosina o alla prostituzione, necessità di prostituirsi che inevitabilmente ha causato l’alto tasso di HIV del 18% fra gli hijra solo a Mumbai, quando la percentuale dell’intera città è appena allo 0,3%.
Dal 1897 transgender ed eunuchi sono stati definiti criminali e il turbine del colonialismo ha sottratto dalla memoria della stessa classe dirigente indiana il ruolo sacro della comunità hijra. L’eunuco, la cui figura risale addirittura al IV secolo d.C. essendo compresa nel testo del Kama Sutra, è uno dei sacerdoti della dea Kali, e il culto di iniziazione – che consiste nella castrazione senza anestesia – viene effettuato in totale segreto. Ora gli hijra vivono, segregati nelle baraccopoli di centri urbani come Chennai, Bombay o Nuova Delhi, di accattonaggio e prostituzione.
Poco spesso si è sentito parlare delle sorti di questa comunità di persone che, da sacerdotesse semi-divine venerate dalla religione induista, si sono ritrovate al centro dei reati penali dei codici indiani. È stata offesa quella religiosità che Pier Paolo Pasolini dipinse alla perfezione in L’odore dell’India, resoconto viscerale che il poeta di Casarsa scrisse dopo il viaggio di sei settimane in India assieme a Moravia e alla Morante.
È un fatto, comunque, che in India l’atmosfera è favorevole alla religiosità, come dicono anche i referti più banali. Ma a me non risulta che gli indiani siano molto occupati da seri problemi religiosi. Certe loro forme di religiosità sono coatte, tipicamente medioevali: alienazioni dovute all’orrenda situazione economica e igienica del paese, vere e proprie nevrosi mistiche, che ricordano quelle europee, appunto, del medioevo, che possono colpire individui o intere comunità. Ma più che una religiosità specifica (quella che dà i fenomeni mistici o la potenza clericale) ho osservato tra gli indiani una religiosità generica e diffusa: un prodotto medio della religione. La non violenza, insomma, la mitezza, la bontà degli indù. Essi hanno forse perso contatto con le fonti dirette della loro religione (che è evidentemente una religione degenerata) ma continuano a esserne dei frutti viventi. Così la loro religione, che è la più astratta e filosofica del mondo, in teoria, è, ora, in realtà, una religione totalmente pratica: un modo di vivere.
Andrea Piasentini
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