Genova, 18 febbraio 1940. La città portuale, ventre di un mediterraneo arcaico e labirinto dai vicoli tentacolari, dà alla luce uno dei suoi figli più celebri e rappresentativi: Fabrizio De André. Il poeta dalla voce grave e mesta, come segnata dalla “disperazione calma” di cui parla Caproni (un altro genovese, anche se d’adozione), nasce in una città che è un crocevia; frequentando i quartieri più malfamati il giovane cantautore, un borghese, imparerà presto che dietro quell’umanità così variopinta si celano il dolore e la solitudine. Per ricordare De André a settantasei anni dalla nascita, si è scelto di tracciare un percorso artistico, estrapolando una canzone da ognuno dei tredici album pubblicati in studio: una maniera per citare e far conoscere anche canzoni meno note, ma comunque splendide.
Volume I (1967) si apre con Preghiera in gennaio, scritta dopo il (presunto) suicidio dell’amico Luigi Tenco a Sanremo. Musicalmente si tratta di una tipica canzone italiana degli anni Sessanta, anche se impreziosita da una melodia coinvolgente, empatica; ma il vero valore sta nel testo: De André, mosso da un senso religioso non banale, anzi critico e, se vogliamo, tragico, si rivolge al “Dio di misericordia” chiedendo pietà per tutti i suicidi. Il dolore di chi è talmente disperato da togliersi la vita non merita l’inferno, che “esiste solo per chi ne ha paura”, ma di trovare una consolazione nel paradiso, il quale d’altra parte esiste proprio “per chi non ha sorriso”. La preghiera, l’implorazione dell’Uomo alla Divinità, è lo sfogo di chi ha perso un amico nella maniera più devastante, l’ultimo appiglio di chi vuole concedere ai disperati almeno la speranza di un riscatto ultraterreno.
Tutti morimmo a stento esce nel 1968, e reca il sottotitolo “Cantata in si minore per solo, coro, e orchestra”: una cantata, o, se si preferisce, un concept album, centrato sulla morte e, ancora una volta, sugli emarginati: fra citazioni da Villon e l’attenzione a problemi sociali come la pedofilia; tre minuti di musica sono dedicati anche al tema della guerra, con Girotondo: la filastrocca per bambini si trasforma in un grottesco canto di guerra. Inquietante il crescendo musicale, quasi a significare un’ineluttabilità dell’orrore bellico. La stessa struttura metrica, e del testo, ci conduce come in un imbuto da cui è impossibile sfuggire, dove l’incomprensibile mostruosità della guerra va a colpire anche e soprattutto i più innocenti, i bambini. “Giocheremo a far la guerra”: la logica della sopraffazione, quando tutto è perduto, si insinua e corrompe anche la purezza dell’infanzia. Credo non vi sia denuncia più attuale, in un mondo dove c’è chi si serve di bambini di dieci anni come fossero armi esplosive.
Il testamento fa parte di Volume III (sempre del 1968), ed è un piccolo capolavoro di ironia, in cui sa però innestarsi la solita punta di disincanto e malinconia: la beffa post mortem del protagonista, che ride dei ricchi e parteggia ancora una volta per i poveri, si conclude con un’amara costatazione: “quando si muore, si muore soli”. La verità, dolorosa, giunge a farci riflettere alla fine di un divertente e poetico galoppo, che comprende anche la fisarmonica.
Nel 1970 è la volta del primo vero capolavoro, La buona novella. L’ottava traccia è Tre madri, il lancinante dialogo fra le tre donne che vedono morire crocifissi i propri figli. Alla sofferenza di Maria si unisce quella delle madri di Tito e di Dimaco, i due ladroni, che non vedranno la luce della Resurrezione, ma si spegneranno definitivamente sul Golgota. Nello splendido finale Maria giunge a negare la gioia del Magnificat, a dubitare della promessa fatta nel momento dell’Annunciazione: “Non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio”. E’ il grido, composto ma terribile, di una madre che non può essere come le altre, che per via di una Provvidenza imperscrutabile vede morire il proprio figlio. Laudate Hominem: così termina l’album, e davvero il Vangelo di De André può dirsi umano, laico, ma allo stesso tempo profondamente partecipe del mistero religioso.
Dopo i vangeli apocrifi, il cantautore genovese sceglie di basarsi sull’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters per Non al denaro non all’amore né al cielo (1971). Importante, per la crescita musicale di De André, la collaborazione con un giovane Nicola Piovani. Il salto di qualità si fa sentire soprattutto in Un ottico, pezzo di visionarietà unica, addirittura accusato di fare velatamente apologia delle droghe allucinogene. L’ottico, dall’aldilà, promette lenti miracolose con cui “inventare i mondi sui quali guardare”. La descrizione dell’allucinazione è fantasmagorica, e unisce ad una poesia di fascino criptico un arrangiamento caleidoscopico e sottilmente turbante.
Storia di un impiegato (1973) è invece l’album più politico di Faber e, Canzone del padre, ne segna il momento di svolta: l’impiegato, aspirante rivoluzionario, è scosso dall’ennesimo sogno e decide finalmente di passare all’azione. L’intorpidimento della vita borghese si manifesta in un sogno convulso ed estremamente simbolico: non è da escludere l’influenza esercitata dalla psicanalisi, esplicitata dai continui rimandi al mondo onirico (ed evidenti, ad esempio con la citazione di Edipo, anche in Al ballo mascherato). De André dice la sua nel periodo più caldo della storia italiana e, nonostante le accuse di “ritardo” dei sessantottini, lo fa in maniera meno posata del solito, ma sempre con un occhio ai vari Berto, figli della lavandaia, che trascinano le loro esistenze in un presente da cui non si vede futuro.
Dopo l’intensità degli ultimi tre album, per De André si apre un momento, se non di stallo, di passaggio: Canzoni, del ’74, contiene, assieme a varie cover da Bob Dylan, Georges Brassens e Leonard Cohen, anche Valzer per un amore. Si tratta di un piccolo gioiello che, sul Valzer Campestre di Gino Marinuzzi, ritaglia un testo d’amore disincantato: il sentimento più ricercato, sulle labbra di De André, non si tinge mai di banale. Questo anche grazie a versi che reggerebbero una lettura priva di musica: “Vola il tempo, lo sai che vola e va;/forse non ce ne accorgiamo,/ma più ancora del tempo che non ha età/siamo noi che ce ne andiamo”.
A Canzoni segue Volume VIII (’75), importante per la collaborazione con Francesco De Gregori, resa evidente sia dallo stile dei testi che dalla composizione musicale. Fra le otto tracce dell’album, la meno conosciuta è Dolce Luna: il titolo della canzone si riferisce al nome di una balena di cui il protagonista è innamorato. Le avventure per mare sono una maniera per evadere dalla realtà borghese, contro la quale si scaglia, critico, l’intero album.
In Rimini (1978) è contenuta la perla Sally, canzone sulla fine dell’infanzia e sullo sfruttamento della prostituzione minorile. Introdotta da una melodia che si imprime subito nella memoria, Sally tratta temi estremamente drammatici con tale delicatezza che pare di trovarsi in una fiaba di Perrault. De André è capace di citare Garcia Marquez e Jodorowsky all’interno di una storia all’apparenza infantile, ma in realtà di desolazione. Anche per questa abilità nel gestire suggestioni intertestuali il cantautore è da considerare non solo un musicista, ma anche un autore letterario di qualità straordinaria.
L’album chiamato L’indiano, uscito nel 1981 dopo la terrificante esperienza del rapimento, è uno scrigno ricchissimo: è interessante estrarvi una canzone tutto sommato “piccola”: Canto del servo pastore. Con la mente rivolta certamente a Leopardi, De André dipinge con tocchi lievi e quasi timidi una meravigliosa figura errante, che leva alla notte un inno alla semplicità, alla comunione con la Natura. I soggiorni in Sardegna non avevano che acuito la predisposizione di Faber nei confronti della vita di campagna, a contatto diretto con la terra. Probabilmente il servo pastore, che lascia il segno del proprio coltello sugli alberi e accende fuochi notturni, rappresenta ciò che De André, cantore anarchico della libertà, avrebbe voluto essere.
Nel 1984 Fabrizio pubblica quello che dalla critica è considerato il suo miglior album: a concludere la magnifica lista di Creuza de ma è D’a me riva, il dolcissimo addio di un marinaio in partenza alla propria amata. D’a me riva, con il suo dialetto genovese e l’arrangiamento ridotto all’essenziale ad accompagnare un canto assorto e dolente, è probabilmente una delle più belle canzoni d’amore che la musica italiana abbia mai prodotto. Nella melodia del marinaio c’è la nostalgia di ogni distacco e tutto il patimento della lontananza: “e in una berretta nera/la tua foto da ragazza/per poter baciare ancora Genova/sulla tua bocca in naftalina”.
Altra canzone in dialetto genovese è A Cimma, contenuta in Le nuvole (1990), un album bipartito: la prima parte in italiano e la seconda in genovese, napoletano e gallurese. A cimma è forse la canzone più bella di De André: in essa viene raccontato il vero e proprio rituale di preparazione della “cima alla genovese”, ricetta tipica ligure. Faber ci fa sentire l’odore del rosmarino, ci accompagna in cucina e ammanta di poesia della semplice “carne tenera”. Il quotidiano si fa sacro, la cima assume quasi un aspetto magico e ci si sente di nuovo bambini, quando, da qualunque regione si provenga, si osservava la nonna cucinare il piatto tipico come fosse un incantesimo. Il fascino ancestrale dell’arte culinaria.
L’ultimo album, Anime salve (1996) si conclude con Smisurata preghiera, quasi a chiudere un cerchio ideale con la prima canzone di Volume I. De André, in quello che può essere definito un testamento estetico ed etico, si affida ancora una volta alla preghiera, dedicandola a chi “viaggia in direzione ostinata e contraria” e “tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”. Il pensiero è sempre rivolto alla minoranza, a chi disobbedisce, a chi subisce: ma la preghiera è laica, anche se il Signore è nominato ma i destinatari siamo noi e ce lo dice il finale della canzone: “dopo tanto sbandare/è appena giusto che la fortuna li aiuti:/come una svista,/come un’anomalia,/come una distrazione,/come un dovere”. Smisurata preghiera è l’ultimo appello di De André a non lasciarsi corrompere dall’indifferenza, ad evitare di giudicare “da buon borghese”, ad accettare l’Altro per le differenze che lo rendono unico. E’ lo smisurato invito alla compassione e alla comprensione, di cui oggi si sente indispensabile la necessità.
Michele Donati
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