C’è un elefante nella sala da pranzo del popolo americano. Quell’elefante dell’antico paradosso buddista, che un cieco non potrebbe mai descrivere. È un male che infetta nel profondo, che scivola fin dentro le case, e colpisce improvvisamente. È un male che nasce e cresce ed abita nel presente degli americani, che come ciechi continuano a convivere con le sue radici e con i suoi presupposti, senza riuscire a stanarli.
Gus Van Sant, regista del Contemporary Contemplative Cinema, con Elephant pone di fronte a una contemporaneità stringente, che non si può descrivere con i punti di riferimento della cinematografia hollywoodiana. È una strage in una highschool il tema attualissimo del suo film del 2003, ispirato al massacro alla Columbine High School nel 1999.
Si perde la macchina da presa
Cade la continuità, il montaggio serrato, i dialoghi veloci, il narratore onnisciente e il lieto fine. Cade la divisione, tradizionale, un tempo imprescindibile, e incoraggiante, tra buoni e cattivi. Elephant semplicemente mostra, attesta, non un prototipo di società, non uno stereotipo che con il meccanismo della metonimia si permette di dire qualcosa, per significare tutto. Attesta invece quello che colpisce persone singolari di una cittadina singolare, nella singolare realtà degli Stati Uniti d’America.
Ragazzi di una normale highschool americana, che vengono presi di spalle, nella fotografia che se ne fa delle rispettive vite. La macchina da presa ne segue le traiettorie, ma si perde nella contingenza dell’esistenza, non seguendo un filo narrativo definito, che deve sfociare in punti precisi, ma semplicemente andando, e dimenticando di mostrarci la sorte di questi ragazzi dopo la strage. Sono attori non professionisti, dei quali si vuole captare quella spontaneità di vita che deriva dalla mancanza di addomesticamento alla finzione.
Una follia che non si spiega e non si assolve
Irriverente e vero è un film che non giustifica i due carnefici, che non attenua e non motiva, avvolgendo tutte le sequenze in atmosfere sospese e surreali, che non danno ragioni, in cui anche la narrazione perde i suoi riferimenti. I due ragazzi colpevoli non vivono una particolare situazione familiare o sociale, non sono espulsi da scuola, né lasciati dalla ragazza. Semplicemente sono consapevoli, desiderosi e freddi, insensibili e tecnici come l’occhio che li osserva. È internet che li educa, insieme ai video games cruenti e ai documentari sul nazismo: una cultura che si autodichiara procacciatrice di “stragisti di scuole”.
L’urgenza di una lezione di respiro
La carneficina si consuma lenta, ovattata, in un tempo sospeso, che rimane surreale, come quelle motivazioni che non si possono trovare. Gus Van Sant tenta di riportare sullo schermo un tempo e uno spazio diversi, quelli di un cinema non assuefatto alle immagini e agli effetti speciali, un cinema che non rifugge la realtà nell’adrenalina di una continuità intensificata, ma si ferma e riflette, e ancora si ferma, a significare con i silenzi piuttosto che con le parole, quei circoli viziosi inquietanti, impossibili, in cui spesso ristagna la realtà di oggi.
Quello che cerca di ristabilire Van Sant, con la sua tetralogia della morte e con Gerry in particolare, è un approccio diverso alla realtà. Quella che vuole dare è una lezione di respiro, in un tentativo estremo di riabituare alla vita, in questa dimensione sovraccarica che ha perso le sue coordinate antropologiche. Si cerca di recuperare l’allineamento tra realtà ed immagine, di liberare quest’ultima da se stessa, da un intrico di paradigmi e forzature narrative, per restituirle la possibilità di vivere sul momento, di emozionare uno sguardo.
Il realismo analogico riparte dalla vita, quella vera
È un’attitudine analogica quella di Gus Van Sant, che volutamente cozza contro la tendenza al digitale e al virtuale, che vuole riportare lo spettatore in un contesto non sovraeccitato dai nuovi potentissimi mezzi tecnologici. Si cerca il movimento dei corpi, oltre che la possibilità di cogliere pienamente lo scorrere del tempo, si anela a ritrovare l’immagine, nella sua dinamica fenomenica. Si vuole ripartire dall’occhio, puro, non ammaestrato, da quell’occhio che non è ancora diventato sguardo. Si rifugge il plot, la storia, la centralità del dialogo, e tutti i modelli della narrazione classica, oltre che la necessità di uno sguardo già predisposto per essere installato nella realtà.
È un lavoro profondo sull’immagine, che restituisce una riflessione forte sulla realtà. Bombardato da fotogrammi di ogni tipo, dai telegiornali, dal cinema, dai videogiochi, il pubblico spesso perde il senso e il valore delle figure che gli vengono passate. Una riflessione del e sul cinema è allora urgente, per ridefinire le coordinate, per restituire all’immagine la sua pregnanza e la sua autorità morale, per reinserire i fotogrammi in un racconto, non surreale, non d’assuefazione, ma vero e sincero, com’è vera la vita, e com’è vera la morte.