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Iran. I mille volti della verità. “Hearing” di Koohestani

3 minuti di lettura

Alla Triennale Teatro dell’Arte, polo milanese attivo nell’attirare talenti internazionali, torna il regista iraniano Amir Reza Koohestani, con la sua ultima produzione Hearing. Uno spettacolo scarno e vertiginoso per riflettere sulle storture di un regime e più in generale sul conflitto tra realtà e sua rappresentazione.

Una storia minima ma paradigmatica

Teatro dall’Iran, in lingua farsi con sovratitoli in italiano. Ma non aspettatevi danze sinuose, musica e mimo. Al regista (classe 1978), che riconosce fra i suoi Maestri il grande Abbas Kiarostami, scomparso nel 2016, interessa porre sotto la sua lente la società iraniana attuale, percorsa da inquietudini e fermenti. L’immobilismo della teocrazia al potere, che ha tradito le speranze della rivoluzione khomeinista di quarant’anni fa, fatica a contenere il malcontento e le rivendicazioni.

Koohestani sceglie una storia minima, che diventa però paradigmatica. In un dormitorio universitario femminile di Teheran, la notte di Capodanno qualcuno ha sentito la voce di un uomo, nella stanza di Neda. La commissione disciplinare ha ricevuto un rapporto di denuncia. Dunque bisogna chiarire l’accaduto e le responsabilità. Come è giunto il giovane al sesto piano? Nessuno l’ha visto, c’è solo il ricordo di una voce soffocata.

©Amir Hossein Shojaei

Su una scena spoglia si alternano due attrici in hijab. Le loro dichiarazioni risuonano su un fondale ellittico: ascoltiamo infatti solo le risposte a domande inesistenti di un’inquisitrice per ora a noi invisibile. Mirabile è la costruzione della ragnatela di sospetti, reticenze, accuse e ritrattazioni. Poi una luce illumina, tra il pubblico, una donna in hijab, la sorvegliante. E la sua requisitoria ora si accosta alle identiche risposte di prima. Il puzzle comincia a ricomporsi: le domande sono incalzanti, procede per insinuazioni e minacce, cerca punti deboli per estorcere una confessione chiara. Un rapporto vittima-carnefice tutto al femminile, che riproduce le dinamiche più vaste del potere.

Si colma qualche tassello, ma nuovi dettagli e sfumature smontano le precedenti versioni, creano ombre e distanze. L’inquisitrice in fondo non vuole far luce sulla verità, ma evitare lo scandalo e difendere i propri interessi. Forse non è mai successo nulla, forse Samaneh (la spia) è un’invidiosa e bugiarda. Forse quella voce maschile è solo la proiezione del desiderio di queste recluse.

La vertigine del racconto

In questo mondo sigillato all’esterno si è insinuata una crepa, che non è tanto l’ipotetico visitatore, ma il dubbio e la diffidenza. I rapporti si reggono sulla paura e si rifugiano nella menzogna, nel paradossale tentativo di attirare l’attenzione altrui, rischiando però di finire intrappolati nelle maglie del controllo. Su tutto incombe infatti la minaccia dell’autorità invisibile e maschilista: “Loro” potrebbero chiudere il dormitorio, hanno il potere di controllare SMS e telefonate, possono scoprire lo snodo di una colpa, vera o presunta che sia. Perché in questo mondo vale di più il sospetto di una percezione (il bisbiglio sentito) che l’accertamento della verità.

Il racconto continua a sfaldarsi, si frammenta, si sdoppia, si ripete. Chi mente? Dov’è la verità? L’ambiguità è tale che risulta possibile sfondare i limiti temporali e immaginare un dopo, superare addirittura il confine vita/morte e provare a chiedere un perdono postumo per liberarsi dal senso di colpa. Ma ecco che di nuovo il racconto si riavvolge, e mentre le parole di una continuano a fluire, l’altra indossa un dispositivo che sorregge una piccola videocamera, posizionata proprio davanti a un occhio. La visione della realtà sarà duplice: attraverso lo sguardo e la ripresa virtuale: su un grande schermo vediamo proiettate le immagini, riproduzione fedele del punto di vista di chi riprende. Forse in questo “vedere” si cela la verità?

© Christophe Raynaud de Lage

L’ambiguità del reale

Koohestani insinua il dubbio sui confini tra realtà e suo artificio rappresentativo. Ciò che vedo non è copia fedele della realtà. Le immagini sono sgranate, oscillanti, dai confini instabili. «Il video non è affidabile», ripete più volte la sorvegliante, perché mostra una sola prospettiva, a una certa distanza. E infatti nessuno ha visto l’intruso. È stato solo sentito, forse. Più volte Neda (l’accusata principale) esce fuori dalla scena e il suo vagabondare viene rimandato sul grande schermo, come in una fuga verso la libertà, sempre però interrotta. Oppure, con effetto avvolgente, ciò che vediamo è il foyer della Triennale, un “fuori” che continua a essere “dentro”.

Dunque, se lo sguardo virtuale tradisce o rinvia specularmente a se stesso, l’udito può essere ingannevole, le parole inciampano tra denuncia e rimorso, la verità è insondabile? Koohestani non dà risposte, vuole moltiplicare i punti di vista (visivi e narrativi) in un labirinto di voci e immagini che tratteggia la complessità del reale. E l’operazione è anche politica: nell’hortus conclusus del dormitorio di Teheran, che il vigile occhio del Grande Fratello del regime vorrebbe intangibile e univoco, si spalanca la vertigine prismatica del possibile.

 

Hearing
testo e regia di Amir Reza Koohestani
Mehr Theatre Group (Iran)
17-18 febbraio 2018, Triennale Teatro dell’Arte, Milano

 

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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