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Majakovskij con Lili Brik, 1926

Vladimir Majakovskij: ricordando il grande poeta russo

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3 minuti di lettura

Correva il giorno 14 aprile 1930 quando Veronika Polonskaja, attrice di teatro,  chiudeva dietro di sé la porta della stanza al 15 di vicolo Géndrikov, dove alloggiava Vladimir Majakovskij. Poco dopo, il rumore di un colpo di pistola. Da quel giorno sono passati 88 anni e su quell’uomo alto, sgraziato, avvezzo alle imprecazioni – sul poeta della Rivoluzione – non si è detto nulla a lungo.

Da una decina di anni, però, studiosi appassionati (come la slavista Serena Vitale ne Il defunto odiava i pettegolezzi) sono tornati a interrogarsi sulla questione, probabilmente per nostalgia dell’atmosfera moscovita di fine anni Venti, o per restituire una dignità alla figura di un poeta ricordato, spesso, solo per le sue parole di commiato, ricalcate poi da Cesare Pavese: «A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare».

Majakovskij

«Guardate: sulla carta son crocifisso coi chiodi delle parole»

«Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla», annota il già citato Cesare Pavese nel suo diario, Il mestiere di vivere, in un giorno qualunque. Eppure, nonostante sulla morte di Majakovskij non vi sia chiarezza, l’unica cosa certa è che se ne sia andato per troppo amore: amore nei confronti di un Partito che più volte lo aveva tradito – e a cui lui rimase sempre fedele addirittura affidandogli, nella lettera di congedo, le persone a lui più care -, amore per la rivoluzione e per le donne, le non poche che popolavano la sua vita.

Majakovskij
Majakovskij con Lili Brik, 1926

In particolare due: Lilja Brik, moglie di un suo intimo amico, Osip Brik, e la stessa Veronika Polonskaja, anche lei sposata. Ma a Vladimir Majakovskij non basta, vuole esclusive, certezze e nell’ultimo anno di vita supplica la ventiduenne Polonskaja di abbandonare il marito, di trasferirsi insieme a lui (avrebbe abbandonato la famiglia Brik, dove viveva, e sarebbero forse fuggiti). Ma lei, disse, sapeva che di fronte a Lili nessuna donna sarebbe stata adatta, e rifiuta così di divorziare dal marito. Come se non fosse già abbastanza, i suoi colleghi di partito avevano abbandonato la sua poesia, disertandola e lasciandolo solo. La Polonskaja ricorda che Majakovskij, dopo una lettura pubblica, venne criticato: si rimpiangevano i versi perfetti di Aleksandr Puškin. Per lui, che per il popolo russo aveva lottato in prima linea col suo personalissimo mezzo che era la penna, rappresentava troppo.

Vladimir Majakovskij: oltre l’artista

«Uscii, feci qualche passo verso la porta d’ingresso. Echeggiò uno sparo. Le gambe mi si piegarono. Mi uscì un urlo e mi lanciai per il corridoio: ferma davanti alla porta non riuscivo, non potevo entrare. Prima di decidermi, mi sembrò che passasse un’eternità, anche se in realtà fu solo un attimo: nella stanza c’era ancora la nube dello sparo. Vladimir Vladimirovic giaceva sul tappeto, con le braccia allargate», ricorda la Polonskaja. Quel tornado che lo avvolgeva da anni era scoppiato.

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Come cerca di mettere in luce Serena Vitale, «le parole di Majakovskij sono sincere: non c’è da incolpare nessuno, l’unica disgrazia è la conseguenza di una vita». Una vita che, per colpa del genio creativo, ha cercato di avere tutto – la gloria della Rivoluzione in primis nell’arte, una passionalità focosa e penetrante, i compagni – per poi dischiudersi in un pugno di sangue.

Majakovskij
Veronika Polonskaja

«Non è una soluzione (non lo consiglio a nessuno) – continua l’ultima lettera del poeta – ma io non ho altra scelta». E poi: «Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci». Una morte annunciata, dal quale non poteva esimersi. L’arte non c’entrava più nulla, ormai: quel che era venuto a mancare era l’uomo, la spinta vitale, schiacciata dal progresso convenzionale al quale l’arte si accompagnava, al passo con  la politica del tempo. Quando invece, forse, ci si sarebbe dovuti fermare ad ascoltare.

L’eredità

Vladimir Majakovskij ci lascia quel che abbiamo già trovato nelle morti di altri poeti del secolo: il senso del sacrificio personale in nome di un insegnamento collettivo. La sua poesia, seppur rivolta verso l’interno, tiene sempre da conto l’ascoltatore e, anzi, lo rende partecipe quasi come fosse l’anello mancante perché l’atto si verifichi. Ma, del resto, la poesia porta con sé un compito: redistribuire la malinconia. Per ogni fiore reciso deve nascerne uno nuovo.

 


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Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.

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