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Timbuktu

Timbuktu: sguardo illuminato sulla guerra in Mali

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Il 22 Febbraio è la notte degli Oscar e fra i nominati a miglior film straniero figura Timbuktu, del regista mauritano Abderrahmane Sissako, nelle sale italiane dal 12 Febbraio. Al di là della sua partecipazione alla kermesse delle “statuette”, il film ha un peso artistico che, inserito nell’attuale mappa sociale della globalizzazione, assume  una notevole valenza politica.

Per noi spettatori occidentali entrare in sala a vedere Timbuktu ha un che di esotico, come se dopo una giornata di lavoro la mente avesse la possibilità di incantarsi di fronte alle riprese dei paesaggi africani, dimenticando tutto il resto.

Ignorando soprattutto il senso del film, la denuncia dello scontro Occidente-Oriente, Sissako muove i personaggi senza porre un’ideologia come meta (non è un film anti-islamico, né tantomeno religioso). I protagonisti sono invece i punti deboli a tutti universali, i lati umani ancestrali, come in ogni film realista degno di questo aggettivo.

Il punto di forza del film consiste nel costruire 100 minuti avvolgenti su un nucleo narrativo molto semplice: una famiglia assiste all’invasione di un gruppo jihadista nel proprio territorio; Kidane, Satima e la figlia Toya vivono nella pace della loro tenda, quando i fondamentalisti occupano Timbuktu, città dove si parla di Zidane e una mucca si chiama GPS. Piovono divieti sui bambini che giocano a calcio, sulle donne «senza pudore», sulle canzoni suonate nelle tende, su tutto ciò che contrasta il rigore del Corano. Divieti che puntualmente vengono infranti.

Non solo i bambini continuano a giocare a calcio con un pallone invisibile, non solo la musica risuona ancora, dimessa, in una tenda, ma lo stesso imam del popolo spiega che l’Islam in cui crede è un regno di pace, niente a che fare con la violenza. E gli jihadisti si ritrovano a rapportarsi con le tradizioni touareg rispondendo o in un arabo stentato (geniale la scelta dell’inglese in bocca ai «militari di Allah» laddove non si ricordano la forma araba) o nella lingua dell’odio: lapidazioni, frustate a corpi innocenti.

Timbuktu cattura lo spettatore perché riesce a unire in modo dinamico una storia intrigante ad uno sguardo multilaterale sull’islamismo: l’imam e il capo jihadista sono due delle mille facce della cultura musulmana. E il regista Sissako non scorda di comporre la milizia jihadista di uomini. Ottusi fedeli che oscillano dalla tragedia violenta a momenti di comicità grottesca – come lo spietato capo che si fa spiegare da un bambino come si guida una macchina, o i miliziani incapaci di andare in moto nel deserto.

La speranza, in conclusione, è che da noi occidentali possa essere accolto come un film, e non un film anti-islamico di un regista africano. Non c’è bisogno di scimmiottare ulteriori atteggiamenti ottusi di fronte alla realtà che opprime i popoli dell’Africa e del Medio-Oriente.

Come si legge in Camere separate di Pier Vittorio Tondelli, «cosa sta facendo questo vecchio, decrepito continente al Terzo Mondo? […] Con quale ipocrisia l’europeo impone regole e comportamenti come se i valori fossero ancora dell’Occidente quando invece tutto dimostra il contrario?». Questo pensa il protagonista del libro dopo esser entrato in una casa di lavoratori sottopagati di un McDonald di Londra.

di Andrea Piasentini

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