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La ferita di Zàdor. www.videogazzetta.it

Il bagno di sangue di Melbourne

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XVI edizione dei Giochi Olimpici

Melbourne, Australia. Emisfero sud del mondo, distante anni luce dal continente europeo. L’antitesi climatica è evidente: l’Europa si prepara ad accogliere l’inverno, mentre in Oceania è estate. L’Australia, e Melbourne in particolare, sono in questo preciso periodo storico il centro del mondo. Infatti nella terra dei canguri si sta disputando la sedicesima edizione dei Giochi Olimpici moderni. Non sono state delle Olimpiadi memorabili, le imprese transitate direttamente nelle pagine dei libri della storia dello sport sono poche. Una, per esempio, porta la firma dell’atleta padrona di casa Betty Cuthbert, la quale conquista tre ori nell’atletica, terminando prima nei 100 e 200 metri oltre a conquistare, insieme alle sue connazionali, la medaglia più ambita nella staffetta 4×100. L’episodio più significativo, però, avviene all’interno del Crystal Palace, la piscina di Melbourne in cui si svolgono le gare di pallanuoto. Il torneo di pallanuoto non ha una vera e propria finale, ma un girone all’italiana in cui si affrontano le migliori sei squadre del mondo, tra cui l’Italia, la Jugoslavia, la Germania e gli Stati Uniti. Le altre due, che si sfidano il 6 dicembre, sono l’Ungheria e l’Unione Sovietica. L’anno in cui si disputano le Olimpiadi di Melbourne è il 1956. Qualche settimana prima, magiari e sovietici si sono già affrontati nelle piazze di Budapest. No, non può essere una partita come le altre.

Melbourne
Il logo delle Olimpiadi del ’56.
www.urbanmelbourne.com

 

Budapest, 23 ottobre 1956

Riassumere in poche righe ciò che successe in Ungheria tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 1956 appare piuttosto complesso. Un evento, una data, va certamente tenuta a mente: nel 1953 nell’Unione Sovietica muore Iosif Stalin, lasciando un enorme vuoto di potere all’interno della nazione più estesa del globo. In Ungheria, al governo, c’è Mátyás Rákosi, certamente il più staliniano dei leader ungheresi. Qualche settimana dopo la morte di Stalin, i dirigenti comunisti ungheresi si riuniscono al Cremlino: i sovietici impongono un nuovo governo, senza Rákosi, ma con Imre Nagy, un socialista moderato, come primo ministro. Rákosi e Nagy torneranno presto di attualità. Con il seguente processo di destalinizzazione voluto da Nikita Chruščëv, ci si rese subito conto che la carriera politica di Rákosi era ormai terminata, tant’è che nel luglio del ’56 fu costretto a dimettersi da segretario del Partito comunista ungherese. Ciò però non calmò gli animi di un paese che stava ormai ribollendo, ricolmo di insofferenza nei confronti dell’Unione Sovietica. Il 23 ottobre una normale manifestazione studentesca si riunì a Pest, reclamando Nagy come possibile salvatore, salvo poi fischiare l’inizio del suo discorso, quel termine “compagni” che, alla folla riunitasi nella capitale, non fece granché piacere. La protesta divenne una rivolta vera e propria, tant’è che qualche giorno dopo l’Unione Soivetica varcò le frontiere ungheresi con ben 4mila carri armati. La guerriglia durò una settimana (4-10 novembre) e la rivolta venne schiacciata dalle forze militari sovietiche. Morirono circa 2.700 ungheresi, e nei giorni successivi il 3% della popolazione magiara lasciò la terra natia per trasferirsi in altri paesi europei.

Melbourne
L’immagine simbolo della rivolta.
www.panorama.it

 

Melbourne, 6 dicembre 1956

Il clima in cui si gioca il match è quasi surreale. Un dato è da tenere bene a mente: i magiari, fin da ragazzi, hanno studiato il russo nelle loro scuole. Conoscendo la lingua non hanno nessun tipo di problema di comunicazione con gli avversari sovietici. Chiaramente abbondano gli insulti, le volgarità, le minacce. A livello tecnico la sproporzione appare abbastanza evidente. L’Ungheria è la squadra più forte del mondo, gioca una pallanuoto irresistibile, anche grazie a una difesa a zona che consente di risparmiare fatica ed energia ed evitare il contatto fisico. Così facendo, i magiari demoliscono tutte le rivali che si pongono davanti a loro lungo il cammino che porta alla gloria olimpica. La vigilia è anticipata da dichiarazioni forti e minacciose. Entrambi gli schieramenti sanno cosa successe qualche settimana prima; in particolare la nazionale ungherese si allenava sulle colline vicino a Budapest durante i giorni della rivoluzione. Da una posizione privilegiata udirono e poterono decifrare il teatro della guerriglia: tumulti, fumo, spari. All’arrivo dei carri armati sovietici, i magiari partirono per Melbourne e da lì cercarono subito di mettersi in contatto con i familiari e gli amici.

All’interno del Crystal Palace, il 6 dicembre, sono presenti moltissimi tifosi ungheresi perché si sa, i magiari, li puoi ritrovare in qualsiasi luogo del mondo. Finalmente, si gioca. Béla Rajki, allenatore di quella grande Ungheria, ha cercato di tenere a freno i suoi giocatori. Non vuole che i ragazzi si facciano prendere dalla foga, poiché è pienamente consapevole che, se fosse una partita come le altre, l’Ungheria vincerebbe tranquillamente, perché è nettamente più forte. Gli atleti, però, sono uomini e non si possono ingabbiare certe pulsioni. La vasca si trasforma presto in una vera e propria tonnara: calci, insulti, pugni, falli, addirittura cinque espulsioni nel primo tempo. L’arbitro, nonostante l’apparente pugno di ferro, mostra di perdere fin dalle prime battute il controllo della partita. Si va al riposo sul 2-0 per i magiari, grazie a un rigore contestato di Gyarmati e a un gol di Zàdor.

Già, Ervin Zàdor. È probabilmente il talento più limpido di quella straordinaria nazionale. Ed è, per diversi motivi, il protagonista assoluto di quella partita che, ricordiamo, non è una finale: è molto di più. Il secondo tempo riparte sulla falsa riga del primo, con gli ungheresi che segnano altre due reti e si portano sul 4-0. L’ultimo gol porta nuovamente la firma di Zàdor. Ervin è già l’uomo copertina del match, ma non sa che negli ultimi secondi di partita riuscirà a far parlare ancora maggiormente di sé. Un avversario sovietico, infatti, colpisce il magiaro con un potentissimo gancio destro. Zàdor ha l’occhio tumefatto, gronda moltissimo sangue dall’arcata sopraccigliare. La piscina si colora di rosso. In tribuna la rabbia esplode. I giocatori sovietici riescono ad evitare il linciaggio dei tifosi avversari e dei neutrali che, fin da subito, hanno scelto di tifare Ungheria. L’arbitro è costretto a fischiare la fine anticipata (questo 4-0 verrà omologato in seguito). La partita passa alla storia come Melbourne-i vérfürdõ, “il bagno di sangue di Melbourne”. Gli ungheresi nell’ultima partita del girone (senza Zàdor, 13 punti di sutura) vinceranno anche contro la Jugoslavia, conquistando il meritatissimo oro olimpico.

Melbourne
Ervin Zàdor qualche anno dopo.
www.gettyimages.it

 

Durante la premiazione Ervin Zàdor pianse lacrime sincere e promise che non sarebbe più rientrato in una patria così tanto lacerata. Mantenne la parola e infatti rivide Budapest solamente nel 2002, dieci anni prima di morire. Dopo Melbourne andò a vivere in California, dove chiese asilo politico e lavorò a stretto contatto con i giovani talenti del mondo della piscina. Un pomeriggio di molti anni fa ne scovò uno particolarmente bravo, così chiese alla federazione statunitense di  tenerlo sotto controllo perché avrebbe avuto sicuramente un grande avvenire. Questo ragazzo si chiamava Mark Spitz e avrebbe vinto sette medaglie d’oro ai Giochi di Monaco nel 1972. Ci vorrà il migliore Michael Phelps, nella vasca di Pechino, per poter infrangere questo record.

Giacomo Van Westerhout

Classe 1992, possiedo una laurea magistrale in ambito umanistico. Maniaco di qualsiasi cosa graviti intorno allo sport e al calcio in particolare, nonostante da sportivo praticante abbia ottenuto sempre pessimi risultati. Ho un debole per i liquori all'anice mediterranei, passione che forse può fornire una spiegazione alle mie orribili prestazioni sportive.

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