Che la letteratura americana presenti infinite sfaccettature, come, del resto, la società che l’ha partorita, è cosa nota.
Che nel genere romanzo nessuno abbia raggiunto la grandezza di Herman Melville lo è forse meno, ma può essere a buon ragione affermato.
Nato in una famiglia di commercianti, il giovane Herman trascorre la sua vita nell’agiatezza fino all’improvviso tracollo finanziario del padre, che costringe la famiglia a vivere del solo sostentamento dei parenti.
Dopo una breve esperienza di lavoro nella fattoria dello zio, nel 1839 Melville decide di imbarcarsi come lavoratore su una nave in partenza da New York, dando così inizio a quella vita in mare che lo vedrà prima mozzo, poi marinaio e baleniere, testimone e attore di avventure e incredibili spettacoli che, con maestria quasi profetica, porterà in scena nei suoi testi più riusciti, gli stessi che garantiranno finalmente un sostentamento alla famiglia.
I viaggi marinareschi diventano materia fertile per Typee e Omoo, ispirati al periodo di prigionia trascorso tra gli indigeni di un’isola polinesiana, per Giacchetta bianca, Mardi e Redburn che consacrano l’autore presso il pubblico, contribuendo a cucirgli impropriamente addosso l’etichetta di romanziere d’avventura.
E proprio questa definizione castrante, errata perché innanzitutto non voluta, rappresenterà per Melville l’inizio della fine, un’inarrestabile discesa verso l’oblio segnata da quello che è oggi considerato il suo capolavoro assoluto, testo chiave della letteratura statunitense, e non solo, comunque opera imprescindibile: Moby Dick.
A un pubblico e a una critica abituati alle scorribande nei mari del Sud, l’improvviso cambio di rotta rispetto al genere avventuroso sembrò di certo un tradimento da parte dell’autore newyorkese.
Le oltre 500 pagine del capolavoro melvilliano, infatti, non contengono avventura, almeno non quella che ci si aspetta se si pensa a Typee e Omoo, ed il mare, la culla dell’imponente cetaceo bianco che dà il nome al libro, fa da sfondo, non è descritto, non se ne avverte l’odore, il colore, il suono. È un fantasma che giace tra l’inchiostro e il bianco della pagina da riempire di parole, non un protagonista.
In Moby Dick lo spazio non è sconfinato, non ci sono distese blu da ammirare, non ci si sente soffocare dall’impetuoso arrivo di un onda; tutto è un grande, inquietante viaggio verso il buio, verso gli inferi e l’oscurità dell’animo umano.
Il mare in questo senso è una sorta di scenario funzionale, sta lì perché il viaggio marittimo è da sempre metafora di un percorso esistenziale, di un cammino avventuroso e ad ostacoli, oscillante tra certezza della rotta e incombenza del nulla e del mistero.
«Chiamatemi Ismaele» è il celebre e fulminante incipit dell’opera, e nelle intenzioni dell’autore guida già il lettore alla corretta interpretazione del romanzo che, denso di richiami biblici, filosofici e letterari, si pone come testo fondamentale sulla condizione umana.
A un occhio superficiale, o poco esperto, l’esasperato vagare della baleniera Pequod sulle acque dell’oceano e la fissazione del suo capitano di vendicarsi della balena, rea di avergli strappato una gamba, dovettero sembrare materia noiosa, oltre che inutilmente condita da ardue digressioni religiose, scientifiche e artistiche.
Ma Moby Dick è un libro sul mistero del male, sulla brutalità che si nasconde dietro un’apparenza candida.
Il capitano Achab (battezzato come il re d’Israele che venerò Baal, provocando l’ira del Signore), colui che Melville presenta per ultimo, «re del mare e gran signore delle balene», il cui unico scopo è quello di vendicarsi dell’animale che gli ha strappato un arto, è in realtà inevitabilmente attratto da questo «gran demone che scivola nei mari della vita», desidera ardentemente annullarlo per poi annullarsi in lui.
Il cetaceo fonde in sé l’idea di pesce e di mammifero, punto di partenza nella catena evolutiva, essere vicino all’uomo nella sua parte più importante ed è per questo che Achab ha il destino segnato, è Moby Dick in ogni sua parte e quell’arto spezzato è l’anello di congiunzione tra lui e il mostro, rende «l’uomo empio» una specie di doppio del mostro, nel corso di una narrazione in cui le vicende s’intrecciano e le interpretazioni si moltiplicano.
Proprio quella creatura maledetta rappresenta la realtà con tutta la sua ambiguità, è bianca come tutto ciò che appare: puro, ma cela in realtà «il carnaio che ha dentro», allo stesso modo in cui il bianco, con la sua natura di non-colore e la sua indefinitezza, «adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo».
È una mostruosa «maschera di cartapesta» che invece di fuggire con tutta la sua forza si abbatte sul legno della chiglia, trova Achab che finalmente ha la sua occasione e con prontezza scaglia l’arpione a cui resta però beffardamente impigliato, sprofondando con quella parte di sé negli abissi del mare e del male.
La nave dal nome di tribù pellerossa affonda con tutto l’equipaggio, tutti vengono inghiottiti dal mare tranne quell’Ishmael, dal nome biblico, marinaio semplice, che ha raggiunto il massimo livello di consapevolezza, che ha identificato nel comportamenti di Achab quell’ambigua follia-ossessione che porta la traccia del serpente umano e che per questo risulta degno di tornare dall’impresa per raccontarla al mondo.
Ma Moby Dick è anche altro, è un libro dai molteplici piani di lettura come solo un grande capolavoro può essere e che traccia le linee per definirlo classico.
Ed ecco che la balena diviene simbolo di quella natura maligna impregnata di leopardiano pessimismo, e Achab, quel folle capitano accecato dal senso di vendetta, è lo spirito dell’uomo debole ma risoluto, deciso a combattere, a resistere.
Achab non accetta con inevitabile rassegnazione la potenza distruttrice della natura e, sebbene uscirà sconfitto dal duello, la caparbietà ossessiva di lottare lo accompagnerà nel lungo viaggio verso la morte («Ciò che ho osato, ho voluto; e ciò che ho voluto, farò»).
Titanismo e impulso vitale si fondono in lui, in questo «re del mare», eroe con l’arpione in mano che agisce in preda ad un furor di passioni contrastanti.
Con Moby Dick, inoltre, la letteratura di mare, che ha mosso i primi passi in Inghilterra con La Tempesta shakespeariana, si arricchisce e tocca il culmine della drammaticità fondendosi con il mito marlowiano del Dottor Faust.
Scienziato avido di onniscenza, pronto a dar via l’anima in cambio di poteri illimitati, Faust incarna il desiderio tutto umano di possedere l’ubiquità, l’immortalità e quanto di non umano è immaginabile; mito anglosassone del desiderio e del controllo, come del resto solo l’immenso impero britannico poteva suggerire nella sua brama di dominio.
Achab è Faust, la sua figura ha origine e si muove avanzando pretese disumane in quell’età coloniale dell’impero sul mare.
Leggi anche:
Faust e i fantasmi: il patto col diavolo
Il capitano vuole sottomettere l’ignoto conoscendolo. E voler conoscere significa bramare lo scontro frontale con quel «muro che cela la verità ultima delle cose», la balena incarnazione e simbolizzazione di tutti i mali.
Verrà inghiottito come chi ha osato troppo, come chi ha cercato di svelare il mistero che si cela negli abissi, quell’enigma che nemmeno il Vecchio Marinaio di Coleridge, colpito dalla maledizione, ha osato tentar di risolvere.
Ed ecco un richiamo all’uomo moderno, un messaggio a lui diretto nell’epoca della navigazione in cui il dominio sul Pacifico si fa illusione di possedere il tutto.
La scoperta di un mondo nuovo, fatto di selvaggi, uomini primordiali e natura ignota, fa sì che l’uomo, imbevuto di scienza, si senta missionario e colonizzatore insieme, svelatore di misteri e dell’irrazionale.
E Achab, cacciatore di balene, insegue il primordiale, l’enigma ultimo dei mari e della Terra.
Ma nessuna scoperta scientifica, nessuna corsa ad inseguire la conoscenza può essere esaustiva come il viaggio verso l’ignoto.
La lotta epica del capitano Achab assume i toni di un mito che sorge dal mondo antico, grandioso ed atemporale; la sfida dell’uomo alla forze primitive della natura è destinata al fallimento, laddove l’immensità dell’oceano altro non è che il simbolo del terrore dei mostri che si nascondono nell’essere umano.
Moby Dick, appena uscito, fu quello che oggi definiremmo un flop epocale.
Critica e pubblico lo bollarono come il delirio di un pazzo, il frutto di una mente visionaria di dequinceyeana memoria.
Per Melville la delusione fu enorme; abbandonò persino, metaforicamente, il mare, quel mare che da viaggiatore, marinaio e baleniere aveva vissuto, amato e assaporato tra il 1839 e il 1843.
«Ho scritto un libro malvagio ma mi sento innocente come un agnello» aveva confessato all’amico scrittore Nathaniel Hawthorne e innocente lo era davvero, innocente come ogni grande genio riconosciuto postumo da una critica e da un pubblico che ha sempre bisogno di tempo per comprendere e assaporare la Grandezza che fu.
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook, Instagram e Spotify, e iscriviti alla nostra Newsletter
Sì, lo sappiamo. Te lo chiedono già tutti. Però è vero: anche se tu lo leggi gratis, fare un giornale online ha dei costi. Frammenti Rivista è edita da una piccola associazione culturale no profit, Il fascino degli intellettuali. Non abbiamo grandi editori alle spalle. Non abbiamo pubblicità. Per questo te lo chiediamo: se ti piace quello che facciamo, puoi iscriverti al FR Club o sostenerci con una donazione. Libera, a tua scelta. Anche solo 1 euro per noi è molto importante, per poter continuare a essere indipendenti, con la sola forza dei nostri lettori alle spalle.