Personalità tormentata e vittima di un successo folgorante, Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 – Long Island, 11 agosto 1956) insieme alla sua produzione artistica di oltre di 700 tele è diventato un’icona del XX secolo. Sposato con l’artista Lee Krasner e afflitto da numerosi problemi economici, è proprio nella sua tenuta di Long Island che Pollock realizza nel 1948 Number 26 A, Black and White, uno degli emblemi del suo periodo dripping (1957-1960), divenuto celebre anche grazie alla preziosa testimonianza del fotografo Hans Namuth. Nel momento in cui New York si afferma come nuova capitale mondiale dell’arte, nell’immediato dopoguerra, Number 26 A, Black and White viene presentata per la prima volta presso la galleria della collezionista Betty Parsons tra il 26 gennaio e il 12 febbraio 1949. Oggi conservata al Centro Georges Pompidou di Parigi, la tela è una pittura glycérophtalique che misura 205 x 121,7 cm.
In questo capolavoro, privo di un vero e proprio titolo per consentire all’osservatore di concentrarsi sull’opera stessa piuttosto che sulla ricerca di un soggetto, Pollock propone un denso incontro di linee bianche e nere violentemente proiettate sulla tela, che non conoscono limiti e regole.
Non c’è distinzione tra linea e colore, tra pittura e tela, tutto sembra far parte di una stessa forma astratta. L’astrazione diventa infatti per Pollock un nuovo modello che mira a rinnovare la creazione attraverso la rottura con le convenzioni artistiche, nel chiaro intento di denunciare la difficile situazione sociale e politica del tempo.
Per la storia dell’arte, Jackson Pollock è il Maestro del dripping, il massimo esponente di questa tecnica straordinaria che egli apprende fin da giovanissimo presso l’atelier del muralista messicano David Alfaro Siqueiros (grazie al quale scopre l’aerografo, piccola pistola alimentata da un compressore per la vernice e i materiali sintetici). Numerose sono le influenze che l’incompreso pittore del Wyoming approfondisce e fa sue negli anni a venire: dall’arte popolare, monumentale e allo stesso tempo poetica di Diego Rivera e José Clemente Orozco, all’espressione mistica e primitiva delle tribù degli indiani d’America.
Questo “sciamanismo” artistico gli trasmette il senso di liberazione del gesto creativo e un certo gusto surrealista, su cui Pollock forgerà successivamente il suo personalissimo stile che, secondo il critico Gérard Denizeau, oscilla tra controllo e libertà totale, dove l’esercizio pitturale diventa vera e propria azione del corpo.
La tela posata a terra allo stesso livello del suolo stabilisce infatti una nuova relazione tra l’opera e lo spazio, dove la tela diventa «arena» e il dipinto un «evento» di quest’ultima. Questa visione innovativa, che va oltre la tradizionale bidimensionalità del quadro, suggerisce un’evoluzione dell’arte che supera se stessa.
Jackson Pollock esprime il proprio disagio nell’immergersi nella “società di massa” cercando di dare una forma fisica e reale alla creatività, alla personalità e alla coscienza dell’artista che mira a riscoprire una pittura pura, senza soggetto e senza oggetto. L’artista, infatti, agisce senza nessun chiaro progetto, rappresenta le pulsioni del proprio inconscio attraverso cui traspare la sua identità. Il dripping, quindi, permette di mettere in risalto l’artista nel pieno del suo processo di creazione dell’opera, coinvolgendolo non solo a livello fisico, ma anche morale, in quanto la pittura si identifica con il suo creatore, l’astrazione diventa espressione della sua originalità.
Il “dripping” di Jackson Pollock: l’arte come azione e creazione
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Valentina Cognini
Nata a Verona 24 anni fa, nostalgica e ancorata alle sue radici marchigiane, si è laureata in Conservazione dei beni culturali a Venezia. Tornata a Parigi per studiare Museologia all'Ecole du Louvre, si specializza in storia e conservazione del costume a New York. Fa la pace con il mondo quando va a cavallo e quando disquisisce con il suo cane.