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La memoria coloniale nel romanzo “Adua” di Igiaba Scego

3 minuti di lettura

Adua, ultimo romanzo di Igiaba Scego, edito da Giunti, è una storia a due voci: quella di un padre, Zoppe, e quella di una figlia, Adua, che presta il nome al titolo. Entrambi nati a Mogadiscio, condividono con l’autrice le origini africane. L’incipit del romanzo vede la protagonista chiacchierare con l’elefantino dalle grandi orecchie di piazza Santa Maria sopra Minerva, a Roma. La donna riporta alla memoria tutta una vita, con un continuo movimento che procede in avanti e torna indietro, riscrivendo vicende che, nel ricordo, ogni volta, assumono un significato diverso. Giovanissima, fugge da una Somalia schiacciata dal regime dittatoriale di Siad Barre e approda in Italia, dove diventa protagonista di un film erotico. Da questa traumatica esperienza scaturiscono una serie di sfortunati eventi che la rendono vittima del suo stesso corpo, umiliato e stuprato. Solamente nel finale del romanzo, per mezzo di una macchina da presa, Adua decide di «riprendersi», divenendo soggetto delle sue stesse riprese, con la speranza di modificare tanto la percezione che possiede di sé, quanto quella che gli altri hanno di lei.Adua

Zoppe condivide con la figlia la stessa sorte. Ormai vecchio, racconta della sua fuga dalla Somalia verso l’Italia. Approdato nel nuovo Stato, avrebbe voluto fare il traduttore, ma finisce vittima della violenza razzista. Tramite lui, l’autrice racconta una fra le pagine più oscure del colonialismo italiano, collegandole a eventi storici successivi. Zoppe, infatti, possiede una sorta di qualità mediatica: prevede il futuro. Si tratta di profezie post-eventum, che annunciano fatti storici già accaduti nella realtà in cui si trova ad essere il lettore, ma descritti come avvenimenti che ancora devono verificarsi nel romanzo. E allora tutto diviene più misterioso, più vago e rarefatto. Le visioni di Zoppe evocano eventi drammatici, accompagnati dalla sensazione di impotenza del protagonista, incapace di compiere azioni che possano modificare il naturale scorrere degli eventi.

Scego offre al personaggio maschile uno spazio di riflessione, attraverso una serie di restrizioni di campo, tanto da ridurre la narrazione alle sole percezioni e ai soli pensieri. Costretto a barattare la propria libertà con quella del suo popolo, il lettore si troverà di fronte un uomo che soccombe al proprio destino. Se per Adua l’autrice sceglie un finale aperto, per Zoppe non c’è nessuna via d’uscita. La scrittura di Scego si carica di dolore. Sin dalle prime pagine si avverte un dramma insanabile che lacera i protagonisti. Anime vaganti nello spazio e nel tempo, sopraffatte dai ricordi, da ciò che poteva essere e che, invece, non è stato, dal dolore di quello che si è vissuto e dal rimpianto di scelte sbagliate. Errano queste presenze, senza sosta e senza meta. Errano nella doppia accezione che assume il verbo: si muovono e compiono gesti sbagliati. Sono anime su cui, sin dall’inizio della narrazione, aleggia un destino di morte. Fondamentale diviene il ricordo e il racconto: solamente attuando il confronto con se stessi e con gli altri personaggi riuscirà l’esorcismo di un tempo passato che non vuole passare, che si fa ancora centro di contenuto. In tal modo, l’identità del personaggio risulta instabile, disposta al rischio di fratture, in continua mutazione, alla perenne ricerca di sé. Scego sembra seguire la tecnica narrativa del romanzo epico. I protagonisti-eroi vivono tutti all’interno della stessa vicenda, ma in maniera differente. Solamente nel finale il lettore riuscirà a tirare le somme dell’intero racconto.

Adua

L’autrice realizza, attraverso la parola scritta, ciò a cui normalmente si assiste durante la proiezione di un film. Il lettore è perennemente costretto a correre dietro parole disposte in maniera fittissima sulla pagina: le descrizioni di piazze, stazioni, bar sembrano non terminare mai, anzi, un posto ne partorisce un altro. Per chi legge, la sensazione è quella che i protagonisti non siano davvero centrati in un luogo geografico, ma che stiano cercando se stessi all’interno degli enormi spazi della memoria. Ecco che Roma non è più Roma e Mogadiscio non è più Mogadiscio: entrambe costituiscono l’anima stessa dei protagonisti e nessuna può vincere sull’altra. Le due città finiscono per compenetrarsi attraverso il racconto dei personaggi. Nella continua esibizione di immagini, la prosa mantiene un ritmo incalzante. La materia narrata fa leva su una lingua in continua ebollizione, ricca di espressioni gergali, scagliate come pietre sulla pagina. Tutto si gioca su una lingua “multitasking” e in “between”, così come la definisce l’autrice. La chiave di lettura è racchiusa nel titolo: Adua, come la prima vittoria africana contro l’imperialismo. Padre e figlia si configurano come allegorie di uno stesso evento storico, che, alla fine, è il vero e unico protagonista. Zoppe vive in prima persona la devastazione della terra somala, Adua eredita le macerie della guerra.

Scego porta sulla pagina il passato coloniale con il quale l’Italia sembra ancora oggi non aver davvero iniziato a fare i conti. Quel passato, però, bussa alle nostre porte attraverso le centinaia di migranti che, ogni giorno, dall’Africa, approdano sulle coste italiane. Nel suo eccesso e nella sua crudezza espressiva, il romanzo racconta la nostra storia coloniale come uno scandalo, come un gigantesco stupro dei corpi e delle menti delle popolazioni conquistate. Quella di Adua è una prosa che aggredisce la realtà, che diventa strumento di visione e di protesta politica. Avversando tanti luoghi comuni, la scrittrice italo-somala lancia una sfida al lettore italiano: propone una narrazione scomoda, dura e tuttavia salutare, perché per capire il presente bisogna partire dal passato.

Floriana Ciccaglioni

Redazione

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