di Susanna Causarano
Dal 4 maggio al 16 maggio è andato in scena al teatro Manzoni di Milano, lo spettacolo Nerone-Duemila anni di calunnie di Edoardo Sylos Labini. Tratto da un saggio di Massimo Fini, lo spettacolo scava nei meandri della figura di Nerone, passando dal suo rapporto con la terribile madre Agrippina, alla passione quasi adolescenziale per Poppea, al timore reverenziale, poi trasformatosi in rabbia a seguito del tradimento, nei confronti del suo consigliere Seneca. Il 12 maggio Sylos Labini e Sebastiano Tringali, l’attore che interpreta Seneca, hanno organizzato un incontro con il cast, per parlare al pubblico della piéce ma anche del mestiere dell’attore e di cos’è il teatro. Una chiacchierata interessante, soprattutto se si pensa a come in Italia il teatro faccia sempre più fatica ad andare avanti, attaccato com’è a vecchi schemi, chiuso a nuovi autori. Si può dire che il suo picco fu la commedia dell’arte. Nel mondo però la recitazione è in continua evoluzione e ciò che ora ha successo è il teatro del corpo, una prosa che conta più sui movimenti dell’interprete che sul tono della voce.
«Perché il teatro deve inquietare, come dice Peter Stein. Non deve farsi manifesto o insegnare, non è quella la sua funzione. Gli attori devono pulsare sulla scena di emozioni universali, comprensibili a tutti, a cui ognuno potrà dare la propria interpretazione».
Sono le parole splendide di Sebastiano Tringali, che a chi gufa che il teatro è in via di decadenza, risponde così: «Sapete chi profetizzava che il teatro stava morendo? Sofocle. Direi che dopo di lui qualcosina di teatro s’ è fatto». Perché il teatro morirà con l’ultimo uomo, ma non prima. Sylos Labini ha poi sottolineato alla platea, composta per lo più da giovani attori, che chi desidera lavorare in teatro, sia come autore che come attore, deve vivere pienamente questa professione ogni giorno della sua vita nel vero senso della parola, non perdersi uno spettacolo, anche a costo di piazzarsi in biglietteria ogni sera sperando che rimanga un posto libero, e studiare durante tutta la carriera, per crescere e migliorarsi.
L’attore e regista racconta poi com’è nata l’idea di imbastire uno spettacolo su di un personaggio così controverso e giudicato dalla storia come poco più che un pazzo megalomane, Nerone, così umano nei suoi vizi e debolezze, nei suoi rancori e vendette, appare molto più comprensibile e vicino a noi di Seneca e della sua congrega di senatori che temono di vedersi sottrarre i loro privilegi dalla politica di un imperatore dissennato. Questo Nerone, cresciuto da popolani, tende a voler capire i veri umori del popolo, cerca di assecondarli e non apprezza i paroloni e la noiosa mos maiorum che tanto ha fatto grande Roma. Così, un personaggio per secoli visto come il pazzo assassino e distruttore di Roma, viene analizzato sotto il suo aspetto più umano.
«La calunnia è un venticello; va scorrendo va ronzando nelle orecchie della gente s’introduce destramente e le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar; e il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte ha crepar» sono i versi di La calunnia, aria della famosa opera Il barbiere di Siviglia. Ebbene queste parole, scelte dal regista per accompagnare una gustosa scena corale, bene descrivono la storia di Nerone, che ad ogni cambio di scena viene inondato da un coro inquietante ed invisibile, che gli rammenta quanto lui sia un mostruoso assassino e che distruggerà Roma. Viene da dire che a forza di sentirsi considerato così, è diventato tale. Seneca, maestro di realpolitik e diplomazia, si destreggia tra i servigi resi all’imperatore e gli umori di un senato moralista che predica il perseguimento degli integerrimi costumi dei padri, e si tuffa appena può nei fumi dell’alcool e dei piaceri carnali ai festini organizzati da Nerone. Il moralismo, però, spazza via gente come l’imperatore, così naturale nella sua follia, così privo di calcoli, un bambinone mai cresciuto agli occhi della madre e castrato da questo rapporto totalizzante, ma non così ingenuo da non rendersi conto della fronda appena in tempo per eliminare quello che lui credeva l’unico faro di verità e rettitudine: Seneca. Ed è proprio nell’ultimo dialogo tra i due che esplode il dubbio più atroce dell’uomo: cosa c’è dopo la morte? Finalmente una verità? L’impostare i personaggi come fossero tutti attori sul grande palcoscenico della vita ben rende la triste verità della dimensione terrena: tutti siamo costretti a portare un maschera e a sopportare quella che gli altri ci costruiscono.