Il tour Apriti cielo del cantautore romano Alessandro Mannarino prosegue e, dopo aver toccato le più grandi città italiane, nella sua versione estiva, ha fatto tappa al castello scaligero di Villafranca di Verona. Proprio qui, nel luglio 2014, l’artista tenne la prima data del tour del suo disco Al monte, del quale il nuovo album Apriti cielo, che ha debuttato al primo posto della classifica Fimi, pare essere il proseguimento.
Il titolo del disco esemplifica la raccolta di canzoni con radici diverse (folk, canzone d’autore, stornelli, rumba, reggae) che Mannarino ha inserito in questo nuovo lavoro, ispirate soprattutto ai suoi viaggi in Sud America, in particolare in Brasile. Di questi luoghi l’autore dice di apprezzare la concezione della musica: «Serve a comunicare con il corpo e arriva prima al corpo e poi alla testa», ed è questo il punto in cui si concretizza il tentativo di unire la scrittura cantautorale a ritmi che invitino a ballare.
Su questa idea si basa la costruzione del live che Mannarino propone, rendendolo un viaggio che parte dall’Italia, con la traccia Roma ad aprire il concerto, una dedica alla sua città, definita un «amor all’incontrario» a cui brindare. Segue una serie di brani tutti tratti dall’ultimo album, Arca di Noè, Apriti cielo, Vivo, Babalù e Un’estate, che racchiude l’essenza più pura del disco.
«Persi dentro al mondo in un’estate
lontana quella voglia di morire
sprofondare in un albergo ad ore
senza neanche dirci che era amore»
(Un’estate, Alessandro Mannarino)
Apriti cielo, infatti, vuole essere il seguito della storia che Mannarino racconta nel disco Al monte, provando ad immaginare cosa possa esserci al di là di quel monte dove un uomo e una donna si ritrovano dopo una fuga dalla città. I due compiono un viaggio alla ricerca «di un nuovo pensiero, di una nuova condizione in cui, una volta perdute le zavorre della religione, dello Stato, dell’idea di giustizia, della divisa militare, questi due cominciano a godersi la vita da quell’albergo ad ore», racconta l’autore.
Se al primo ascolto Apriti cielo può sembrare un album più leggero rispetto ai precedenti, la sensibilità con cui Mannarino compone è tutt’altro che scontata e disimpegnata, come dimostra il brano La frontiera, che durante il live emoziona visibilmente lo stesso autore. Questa, infatti, è forse la traccia che meglio chiarifica l’intenzione di Mannarino di creare un disco che parli dell’umanità all’umanità, «in un momento in cui si costruiscono barriere, si alzano muri, si fanno fili spinati» spiega in un’intervista.
Tutti i brani risentono positivamente dell’ironia compassionevole dello sguardo dell’autore sulle condizioni dell’uomo, mettendo sempre in luce l’occhio critico con cui egli guarda al rapporto tra il singolo e la società.
«Mi piace il fatto che l’espressione “apriti cielo” – racconta Mannarino – possa essere letta in modi diversi, sia come un’esortazione che come esclamazione, e mi piace il fatto che ognuno possa dare il proprio senso e significato al titolo, come quando si guardano le nuvole o le stelle e si creano delle forme. Siamo noi che mettiamo i significati nelle cose della vita, possiamo trovare un senso positivo o negativo a tutto quello che viviamo. E questo è un po’ il significato del disco: la tua vita dipende da te».
Cosa distingue davvero Apriti cielo dai lavori precedenti? Sostanzialmente l’oggetto della ricerca: «questo album cerca la bellezza con dolce disperazione, un’allegria non vuota e frivola bensì piena, che sceglie il bello come possibilità di salvezza», e l’idea narrativa e compositiva, che è più forte e omogenea, grazie ad una componente testuale prettamente allegorica.
Tuttavia, a viaggio compiuto, il cantastorie è consapevole di aver lasciato il cuore nella sua città, Roma, dove le borgate, i vicoli, i colori hanno portato alla nascita dei primi tre dischi, dei quali nel corso del live esegue i più grandi successi: Osso di seppia, Scetate Vajo’ e Tevere Grand Hotel, da Bar della rabbia; Quando l’amore se ne va e Statte zitta, da Supersantos; L’impero, Gli animali e Scendi giù, da Al monte.
«Un concerto non è una performance che serve a mostrare le mie abilità, ma è l’urgenza di comunicare col mio pubblico, un’urgenza che arriva dalla voglia di fare qualcosa con i miei fan, per renderli partecipi al cento per cento di quello che suono: il live funziona solo se si instaura empatia con chi viene ad ascoltarmi», dice Mannarino, che riesce effettivamente a coinvolgere il pubblico come mai prima d’ora grazie a nuovi arrangiamenti e all’inserimento in scaletta dei suoi brani più famosi: Me so’mbriacato, Marylou, Serenata lacrimosa e Fatte bacià, per poi chiudere il concerto con Vivere la vita, una poesia che riporta alle origini.
Musicalmente il live è davvero notevole, la voce del cantautore è accompagnata da fiati, tastiere, coriste, ben quattro chitarre e una sezione ritmica impressionante, per un totale di 11 musicisti e polistrumentisti di alto livello al lavoro con strumenti provenienti da tutto il mondo. L’incontro di suoni travolgenti che nasce è ricco di ritmi che rimandano a Bahia, all’Africa e a New Orleans, ma che attingono più in generale anche al rock, al folk e al blues.
Per quanto riguarda lo stile, soprattutto della scrittura, sono due i maestri dei quali Mannarino segue le orme: Vinicio Capossela, al quale si appoggia spesso la linea della narrativa caratteristica del cantautorato italiano, mescolata al post-folk popolare, e Franco Califano, nel tentativo di farsi portabandiera della romanità.
È forse questa solidissima base di ispirazione a rendere Mannarino uno dei pilastri dell’attuale cantautorato italiano, nonché un poeta di altri tempi, capace di muoversi su linee intime rare, sfruttate per portare avanti la ribellione di cui egli si è fatto portavoce soprattutto con questo ultimo disco. Apriti cielo è un inno al vitalismo, che conferma quanto Mannarino sia un ricercatore accanito della libertà più estrema, un celebratore della vita e dell’amore in tutte le sue forme, unico nel suo genere.