Francesco Paolo Maria Di Salvia è un uomo straordinario. Chiacchierare con lui ti porta a riflettere su temi caldissimi. Classe 1982, salernitano come il protagonista del suo primo romanzo La circostanza.
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«La circostanza»: un romanzo necessario
Dopo il diploma in sceneggiatura e produzione creativa al centro sperimentale di cinematografia a Milano, ha lavorato nel mondo dello spettacolo a Roma tra studios, teatri, tv, per poi trasferirsi stabilmente a Praga. Attualmente lavora da casa per Google e continua a scrivere. In realtà non smette di scrivere da quando ha 7 anni ed è un avido lettore. Figlio unico, autodidatta, moderatamente smanettone è un personaggio fuori da schemi e classificazioni. Puoi essere d’accordo con lui o meno, ma una chiacchierata con lui è tutt’altro che banale.
Cominciamo. La circostanza è un romanzo di 600 pagine piuttosto dense. Che lavoro ha richiesto redigerlo?
Parecchio, ben 9 anni. La struttura l’avevo ben chiara in mente, volevo dargli un taglio cronologico proprio per sfottere l’ossessione storicistica tutta italiana di attendere, man mano che si scorrono le pagine, il disvelamento di una Verità. Durante questi nove anni ho approfondito le mie ricerche storiografiche, ho imparato molto sul caffè e ho continuato ad aggiungere “piloni” a questa struttura, dentro di me già ben formata.
Nel tuo libro c’è una forte critica alle ideologie intese come nuove chiese. Da dove parte questo bisogno dell’uomo di crearsi questa autorità superiore in cui annullarsi (e spesso distruggersi) sia esso un partito o un’idea?
Dunque, direi che questo discorso parte dall’educazione autoritaristica nata nell’ 800 e che continua a fare danni nel 900, la cosiddetta pedagogia nera. Crescere i bambini con un’educazione autoritaristica e violenta, crea adulti che ricercano la stessa autorità suprema nel mondo esterno e con il bisogno di restare sottomessi. Senza contare l’istinto di distruzione che esso porta con sé, a volte con risvolti drammatici, come ad esempio la follia di Hitler, che certo non era stato trattato bene in casa. Un rapporto sereno coi figli, fondato su dialogo e comprensione, una buona educazione sono la base per diventare uomini liberi. Nel secondo dopoguerra, da una parte troviamo quindi questa pedagogia, questo bisogno forte di autorità e dall’altro il desiderio di libertà che in occidente si è fatto sempre più importante. Per incanalare la ribellione delle masse, chi si è trovato ad occupare posti di spicco, ha preferito incentivare questa tendenza ad annullarsi in un’ideale, questa non libertà che fa comodo a tutti, a chi ha il potere, ma anche agli altri che non devono così pensare troppo. Se pensi a Italo, il protagonista, che viene abbandonato dalla madre allo zio, ha subito processi pedagogici anche violenti, che l’han portato a cercare anche da adulto un’autorità in cui rifugiarsi, dal Partito alla moglie con un carattere molto forte. Il PCI ha vissuto grazie a questi individui: l’immagine della giustizia sociale era posta da un punto di vista estetico come obiettivo finale. Più che la rivoluzione, più della società senza classi. Questo brainwashing ha creato una generazione di lobotomizzati che vedevano la giustizia sociale come il bengodi, solo perché gliel’avevano prospettata come la Terra Promessa.
Quindi le ideologie sono il vero male e vanno estirpate?
Ma tu riesci a pensare qualcosa al di fuori delle ideologie? No, al massimo puoi essere estimatore di un realismo applicato, ma che è poi nei fatti, a livello politico, un’ideologia. Non puoi sfuggirvi. Io posso considerarmi pessimista, realista, ma sono ideologie belle e buone. Duemila anni fa, con la comparsa delle religioni monoteistiche, è avvenuta una colonizzazione ideologica del mondo. Certo prima c’era il pensiero greco che però non rappresentava una versione totalizzante per l’occidente. Per quanto tu voglia vedere tutto sotto la lente del realismo, che non è post ideologismo, essa non rappresenta una novità, è cinismo o realismo politico. A questo proposito vorrei citare la Critica della ragion cinica di Peter Sloterdijk. In questo libro ad un certo punto salta fuori Il Grande Inquisitore di matrice dostoevskijana, una specie di coscienza del potere parlante che apostrofa Gesù, dicendogli quanto gliene importa al potere che sia risorto; Gesù è venuto a negare la narrazione, cibo del potere, quindi non serve più.
Detta così è terrificante.
Fondamentalmente si può dire che ci sono persone che hanno capito e altre no. Il potente cinico sa che non ci sono ideologie, o meglio ci era cascato in origine, ma ora il potere lo ha cambiato e le usa solo come Instrumentum Regni, per dirla alla Machiavelli. Tutto ciò non è da vedersi come per forza positivo. Positivo e negativo non hanno gran senso ma, se la vuoi vedere in modo occidentale, quello è cinismo negativo. Per Sloterdijk esiste anche un cinismo positivo alla Diogene di Sinope detto Kinismo o Kanismo, il dire le cose come stanno, lo sberleffo. Diogene parla della realtà com’è. Questo kinismo è differente dal cinismo del grande inquisitore: il Kinico ha capito, ma si pone in maniera differente, è un cane sciolto (c’è un interessante gioco di parole tra l’espressione “cane sciolto” e il kinismo che viene detto anche kanismo) il cinismo del potere è invece tutt’altro. Poniamo per esempio il grande inquisitore comunista; torna Marx e gli dice che non ha capito niente del comunismo. No, risponde il potere, sei tu che non hai capito niente di Marx. Io invece ho capito perché ho mantenuto la narrazione e il potere. In un’ottica di conservazione del potere è così. Poi certo, ci sono tante cose simpatiche da dire sul rapporto tra Gramsci e Togliatti, ma lasciamo ad ognuno lo sfizio di approfondirselo. Di certo la sua morte ha fatto comodo a molti, non solo fascisti, anzi, per Mussolini fu un problema. Se Gramsci fosse stato vivo negli anni 60, Togliatti da grande inquisitore gli avrebbe detto, tu di Gramsci non hai capito nulla, tu sei un problema per il PCI, il potere moscovita di Stalin aveva dato dettami precisi per l’Italia, che non potevano essere compatibili con Gramsci. Chiaramente tutto ciò avviene perché c‘è contrapposizione tra mondo delle idee e realtà: il primo non esiste. L’idealismo è un’illusione che ha illuso generazioni, compresa la mia e la tua. Io so di non potervi sfuggire: posso essere realista e pessimista, amare pensatori conservatori e realisti, Leopardi e il suo pessimismo, ma so che le idee ci sono e non possiamo sfuggire. È così dai tempi dei greci.
Queste visioni con la deriva dei tempi hanno dato adito a teorie cospirazioniste più o meno valide e agli sfegatati debunker, i crociati contra le bufale. Che ne pensi dei tuttologi che devono esprimersi su tutto sentendosi portatori di verità?
Mi fanno sorridere. Sartori parlava di «ignoranza armata». Prima chi era ignorante ascoltava e cercava di capire. Adesso c’è questa ignoranza armata aggressiva e molto italiana, che nasce da una presunzione di sé ma anche da una debolezza, mancanza di autostima, che ci ha portato a queste esplosioni di nulla creativo. La verità, come al solito, sta nel mezzo. C’è contingenza ma non solo. Io tendo a credere nel caos, mi piace molto come concetto. I pupari, per dirla alla siciliana, quelli che muovono i fili ci sono, è indubbio.
Quali sono i tuoi pensatori e/o scrittori di riferimento? Quanto hanno influenzato il tuo romanzo?
Pensatori di riferimento, qui si va sulla filosofia, figurati che io di solito di queste cose non parlo, preferisco tenerle per me. Io cazzeggio molto. (sospetto che il suo cazzeggio sia comunque per così dire, un cazzeggio nato da interessi non certo vuoti o stupidi, ma giustamente autocelebrarsi è da sfigati, ndr) Amo Diogene, preferisco fare come lui che dice come stanno le cose, che provoca da cane sciolto. Alla presentazione del romanzo a Salerno con mia madre, mia nonna e la mia vecchia insegnante di italiano tra il pubblico, leggo il passo sui cessi e la masturbazione. Sono così, Kinista fino in fondo, soprattutto in letteratura. Realismo e cinismo. Per me scrivere un romanzo storico fuori dalle ideologie era l’obiettivo. Scriverlo ha richiesto 9 anni, ma la struttura è rimasta quella che avevo pensato dall’inizio. Ne avevamo bisogno, non ce n’erano. Pensatori….beh senza dubbio Leopardi e Severino. Tra gli scrittori dico Kafka su tutti, poi Bulgakov, Roth, Pirandello, Fitzgerald, Borges, Cortazar, Bolano, Gogol, Bellow, Walser, Svevo. Sono pietre miliari per me.
Perché il mestiere dello scrittore?
La professione di scrittore, la anch’essa vedo cinicamente: certo, l’aspirazione è far dire al lettore «oh la penso così, ma non sapevo come dirlo», ma nel libro si prende in giro tutto, mi prendo in giro anche io. La struttura storicistica è una presa in giro, dell’ossessione storicista italiana del manifestarsi progressivo della verità fino alla fine dei tempi. Se ci fai caso è proprio l’ossessione di Italo Saraceno, è il suo modo di vedere la rivoluzione come manifestarsi della verità. E fa tutto parte del prendere in giro. Non sono uno storicista, credo che grossomodo la verità sia stata rivelata, che è brutta ed è meglio non guardarla in faccia. Se ritorniamo al discorso del cinismo del potere, il cinico alla Diogene sa la verità, e te la sbatte in faccia. Leopardi pessimista, conosceva la verità, l’ha sempre mostrata, senza nasconderla, è da considerarsi un filosofo secondo me, ed è uno dei pensatori e autori più sottovalutati a livello europeo, forse per una sorta di provincialismo. Nella Ginestra di Leopardi c’è un particolare: La «social catena», che andrebbe in teoria contro il suo pensiero, tranne nel caso in cui tu la veda come una parte ludens, un gioco, giusto per non impazzire completamente davanti alla verità di ciò che siamo, dimostrando quindi l’indispensabilità del gioco, anche serio, homo ludens, per evitare di dare completamente di matto. Questa verità ammattente è il fuoco del pensiero nichilista.
Ma qual è questa verità?
Eh, non si può dire. Forse che siamo ombre, ma o ci costruisci un sistema filosofico o serve a poco saperlo. C’è gente che ci studia 70 anni. Io poi ho il classico caos dell’autodidatta. Non sono un filosofo. Per chi legge filosofia il mio libro è un puntino.
Hai ricevuto una menzione speciale al premio Calvino. Hai lavorato come aiuto regista e sceneggiatore a Roma. Che consiglio ti senti di dare a chi vuole intraprendere la professione di scrittore?
Lo scrittore deve essere una macchina da scrivere, l’ispirazione è un’illusione romantica. Questo mestiere è una ricerca continua, devi leggere tanto, ma devi anche produrre tanto, ogni giorno. Ogni scrittore si è formato leggendo dai 10 anni in poi le cose interessanti e non ha mai smesso. Altrimenti fai come quegli scrittori «del no» che hanno una visone talmente lucida e nichilista di questa verità e magari hanno un talento enorme, ma non scrivono più, perché lo trovano inutile, fa talmente parte di quella verità nichilista che ti fa dire «che scrivo a fare». Salinger ne è un esempio. Lavorare a Roma mi ha dato la dimensione di cosa c’è dietro ai format televisivi quali fiction e serie tv. Puoi essere un ottimo sceneggiatore, ma se ti impelaghi per anni a scrivere dialoghi per fiction, la mano la perdi. Purtroppo però quello vende e ci si adegua. Uno su mille vive solo di quello però, devi svolgere anche un’attività parallela. Io per esempio lavoro per Google da casa. Ho iniziato vendendo traduzioni dall’inglese all’italiano su una piattaforma e un giorno sono stato contattato da Google. Qualcuno (Berlusconi) aveva detto che nel futuro saranno importanti le tre “I”(Inglese, Informatica, Impresa). Beh, pare proprio vero.
Susanna Causarano