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“La cura del benessere”: il cinema di forma tra cliché e vuoto narrativo

2 minuti di lettura

Esiste un cinema capace di smascherare il nostro falso coraggio, capace di mostrarci per il nostro essere umani e spaventati. Un essere che diviene vero nel cinema che infastidisce, impaurisce, terrorizza. Il cinema che ci conduce sul limite della sopportabilità per capire quanto siano invalicabili i muri delle nostre paure. Sono i film in cui il sangue che sgorga non è un rosso liquido Hollywoodiano, bensì il nostro, vero, sangue che ribolle sotto un velo d’ansia e paura.

Un velo quanto mai finto nel tanto atteso La cura del benessere di Gore Verbinski. Ci troviamo, infatti, di fronte ad una pellicola capace di farci saltare sulla sedia giusto un paio di volte, di imprimersi efficacemente nella nostra memoria con alcune meravigliose composizioni orrorifiche, ma non abile nel tenere la noia lontana dalle due ore e mezza di proiezione, anzi.

Eppure il Cinema, anche quello Horror, non è un parco a tema, la paura non è il centro essenziale, seppur almeno una buona colonna. Ciò che conta realmente, nel suo insieme, è la conduzione, l’essere gettati con logica in un universo affascinante in ogni suo particolare, e qui lo è davvero; una SPA svizzera immersa in magiche acque con cui ricchi uomini tentano l’estrema salvezza corporea e mentale. Un luogo onirico e surreale in cui Dean Hean, perfetto squalo dagli occhi azzurri, si troverà incastrato nel tentativo di riportare a casa il proprio datore di lavoro, impazzito a causa dell’oscura Cura che questo luogo custodisce.

fonte: wallpapershome.com

Interessante, certo, se non avete mai visto nessun film in vita vostra. Perché è veramente difficile assistere alla trasformazione psicologica di un protagonista portato a dubitare della propria sanità mentale senza non pensare anche solo un attimo al noto Shutter Island. Una particolare dinamica è tale se lo è davvero. Ma emulare per variare (latini insegnano; aemulatio et variatio) è ciò che rende grande ed innovativo il cinema, come qualunque altra arte. Eppure è proprio qui, nella variazione, che Verbinksi, il regista, sembra proporre il peggio di sé. Quando il film raggiunge il suo akmé, prevedibile e calcolabile al minuto, inizia a farci dubitare della realtà o meno di ciò che si sta guardando.

Smettiamo di credere alla sanità dei protagonisti, della bontà o malvagità di questi, e così facendo Verbinski alza attorno a noi una nebbia di ansia efficace, risolta però con una agilità impressionante, tagliando, verso la fine, con fare chirurgico la distinzione tra cattivi e buoni, rendendo semplicissima e semplicistica la lettura dell’opera ed avvicinando il tutto ai Fantasy in cui il villain è sempre brutto e sfregiato ed il protagonista bel salvatore della Bella. Il problema potrebbe non esistere, se fosse un altro film. Se il tutto non si reggesse su sfumature di regia, su fumi inebrianti, su scelte cromatiche precise, su simmetria e difficoltà di lettura, su immense colonne crollate di fronte ad una superficialità narrativa. Un fascino gettato nel mare magnum della banalità. Il risultato è un mostro informe;  uno splendido contenitore, fatto di terrore e meraviglia, in cui si agitano azioni sconnesse e prevedibili.

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Può la forma salvare sempre il contenuto? Secondo Verbinski sì, ma l’idea che il ricordo di un film sia solo legata alla sua atmosfera, e non al racconto, si scontra con una realtà profondamente umana; possiamo anche essere portati nel migliore dei luoghi, ma solo la giusta compagnia ce lo farà ricordare come tale. Il racconto, la storia, è quella compagnia, che qui manca.

 

Alessandro Cavaggioni

Appassionato di storie e parole. Amo il Cinema, da solo e in compagnia, amo il silenzio dopo una proiezione e la confusione di parole che esplode da lì a poche ore.
Un paio d'anni fa ho plasmato un altro me, "Il Paroliere matto". Una realtà di Caos in cui mi tuffo ogni qual volta io voglia esprimere qualcosa, sempre con più domande che risposte. Uno pseudonimo divenuto anche canale YouTube e pagina instagram.

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