Anni fa lo studioso George Steiner annunciava la morte della tragedia, con riferimento al genere letterario e alle sue regole; il tragico però continua ad essere vivo fra noi e il mondo attuale torna alle forme antiche per interrogarsi. Nel suo nuovo progetto Ifigenia, liberata il regista Carmelo Rifici, in collaborazione con Angela Dematté (produzione LAC – Lugano) ci invita ad un itinerario di problematizzazione sull’antico, alla scoperta di una voce per l’oggi e la tragedia Ifigenia in Aulide di Euripide è uno dei pre-testi per indagare il tema della violenza.
Una rinnovata forma di «teatro didascalico», in senso brechtiano, oppure il regista intende ricreare il clima di condivisione della polis ateniese raccolta a teatro? Senz’altro Rifici muore dalla necessità di un dialogo con la comunità attraverso uno scavo profondo e generoso che attinge agli archetipi, passando per la riflessione filosofica (Eraclito, Platone, Nietzsche) e antropologico-religiosa (René Girard, Giuseppe Fornari, Antico e Nuovo Testamento), una folla di suggestioni e riferimenti talvolta ridondanti. Ma alla foga del pensiero indagatore non si comanda, non si possono imporre fili rigorosi e lineari. Lo sforzo ermeneutico procede infatti per tentativi, mentre domande ingombranti restano senza risposta, il pensiero si blocca in vicoli ciechi e la speranza di soluzioni luminose resta assai flebile.
Gli arredi della scena (Margherita Palli) riproducono la sala prove di un teatro (microfoni, strumentazione tecnica audio-video e musica dal vivo con Zeno Gabaglio). Un’enorme libreria a muro rivelerà indizi di un’altra epoca (idoli e maschere) ed, infine, un grande schermo avrà il duplice scopo di svelare in presa diretta ciò che avviene nel retro e di suggerire visivamente temi ricorrenti (Dimitrios Statiris).
Ciò che vedremo si presenta come «prova» di una messinscena, dunque: interruzioni, consigli del regista, commenti degli attori e continuo distanziamento dai propri personaggi. L’artificio metateatrale non ha le complessità pirandelliane, ma è condotto con leggerezza dal Regista (Tindaro Granata), credibile nel suo timido imbarazzo di fronte al pubblico; forse troppo gentile con gli attori, inquieto e dubbioso sull’esito dell’esperimento. Al suo fianco, la Drammaturga (Mariangela Granelli) espone alla troupe e al pubblico i grumi problematici, talvolta con eccesso di zelo. Rifici ha voluto condividere con il pubblico l’atmosfera del «fare teatro» e mette in discussione quel linguaggio: non basta più la recitazione di un testo, occorre andare oltre, trovare nuovi codici di lettura.
La tragedia euripidea desta tematiche universali: guerra, affetti e Realpolitik, comando e invidia, eroismo ed innocenza, religione e sangue. Siamo agli antefatti della guerra di Troia: i Greci sono accampati in Aulide e l’intera spedizione è compromessa perché la partenza è ostacolata dalla bonaccia. L’indovino Calcante rivela che per placare gli dèi avversi occorre il sacrificio di una vittima: Ifigenia, la figlia primogenita del capo Agamennone. Lacerato dal dilemma di padre e comandante, egli fa chiamare la figlia con il pretesto delle nozze con il glorioso Achille.
Rifici espunge la figura di Achille ed aggiunge quella di un Odisseo (Igor Horvat), ambiguo calcolatore e figura nietzschiana che, sul crinale fra razionalità e follia, annuncia: «siamo i resti di un sogno di un dio che è già morto». Viene potenziato il ruolo del Vecchio servo (Giovanni Crippa), l’unico a sembrare consapevole di che cosa sia la giustizia. Gli attori discutono per trovare la giusta calibratura per le note dolenti di Agamennone (Edoardo Ribatto), l’impeto di Menelao (Vincenzo Giordano), la rabbia di Clitemnestra, madre-leonessa ferita (Giorgia Senesi). E Ifigenia? È possibile oggi salvarla?
Drammaturga e Regista cercano di capire razionalmente e con azioni teatrali la ritualità del sacrificio, fra gli ominidi, nell’archetipo biblico di Caino e Abele e oltre. Due figure geometriche accompagnano questo itinerario diacronico e terrificante: il cerchio e il labirinto. La comunità fa cerchio intorno alla vittima, dapprima con lo stupore della scoperta e poi con la consapevolezza della necessità: il sacrificio è un modo per incanalare la violenza ed esorcizzare il male, quel sangue innocente è sollievo e salvezza. E il labirinto è il disegno primordiale delle viscere della vittima sacrificale. Ecco forse perché secondo il mito al centro del labirinto risiede il Minotauro, il mostro presente in ognuno di noi, orrendo ed affascinante allo stesso tempo. È importante, allora, scoprire delle macchie in Ifigenia («Se non ti sporco, non ti uccido»): anche lei (Anahì Traversi), pur così graziosa e ingenua, è curiosa del sangue, prova desiderio erotico per il padre, odia l’Altro, il barbaro: «sacrificatemi, ma distruggete Troia!».
Il tentativo di «liberare» Ifigenia dalle strettoie del mito fallisce. Al di là delle sovrastrutture filosofiche e metateatrali, molto riusciti sono gli Stasimi delle due Corifee (Francesca Porrini, Caterina Carpio). Come bambine inquietanti (ricordano le due gemelline in Shining di Kubrik) giocano con il destino, sia esso l’hula hoop o i cubotti con le lettere dell’alfabeto greco che costruiscono, o sgretolano, le costruzioni del logos. Rappresentano il Coro delle donne di Calcide, ma sono un personaggio «liquido»: compartecipi del dramma in Aulide, custodi di sapienza mitica antichissima eppure anche nostre contemporanee (usano Internet, Facebook, Twitter). Con un linguaggio essenziale e crudo, alternando sorrisi affettati a risate sguaiate, esprimono il terrificante senso comune cioè la via della moderazione come giusto mezzo, ma anche la necessità della guerra per sfuggire la noia, la gioia per la morte di Ifigenia che garantisce finalmente la partenza e la «costruzione» della Grecia ideale. Ed infine anche l’inquietudine attuale verso i migranti, nuovi barbari che arrivano dal mare e fanno sacrifici in nome del loro Dio. Le Corifee, consapevoli della mostruosità, chiamano il poeta a nasconderla di nuovo in un labirinto di poesia: Euripide ci consola con il racconto della sostituzione di Ifigenia con una cerva, ma è solo una finzione. Esiste una speranza per uscire dal labirinto? Forse sì: il teatro è un tentativo di condividere i dubbi.
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Ifigenia, liberata
ispirato a Euripide (e altri testi)
drammaturgia di Angela Dematté e Carmelo Rifici
regia di Carmelo Rifici
Produzione LuganoInScena
Piccolo Teatro, Milano
27 aprile-7 maggio 2017
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