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© Bepi Caroli

Jon Fosse: chiaroscuri di vita-morte in “Sogno d’autunno”

3 minuti di lettura

Norvegese, classe 1959, Jon Fosse è uno dei più grandi drammaturghi viventi, tradotto in tutto il mondo. Figlio del grande freddo scandinavo, di quella strana alchimia fra notte e giorno che invita all’introspezione, è il poeta del chiaroscuro: «La mia poesia appartiene alla notte, ma anche questa ha la sua luce», afferma. Chiamato “il nuovo Ibsen”, Fosse smorza i contenuti sociali del suo celebre conterraneo, per soffermarsi invece sui sentimenti. Infatti i suoi personaggi sono figurine ordinarie, che lottano nella complessità della vita alla ricerca di un senso, e le sue atmosfere galleggiano in una rarefazione astratta e raggrumata di malinconia.

Dopo il successo a Torino, approda al Teatro Franco Parenti Sogno d’autunno (1998), per la regia di Valerio Binasco (alla sua quinta prova con i testi di Fosse). Lui, lei e una panchina: un’intimità che prelude alla confessione d’amore su uno sfondo romantico. Ma non siamo in un film alla Woody Allen. Questo è Fosse, ed ecco il primo stridore: siamo in un cimitero, delineato da una lastra grigia inumidita di muschio. Alcune sedie sono sparse sulla scena (Carlo De Marino), con un lumino rosso appoggiato sopra, a marcare la presenza-assenza: i morti non ci sono più, non li vediamo, ma sono seduti fra noi e assistono da spettatori al teatrino della nostra esistenza.

© Bepi Caroli

Nei panni di Donna e Uomo, Giovanna Mezzogiorno, con una recitazione fisica e inquieta, adatta alla tensione algida dell’atmosfera, e Michele Di Mauro, lucido e misurato. Il loro incontro pare casuale: il destino li ha condotti qui per un funerale, ma in passato sono stati amanti, anche se le loro vite sono ormai separate da tempo. Lui ha una moglie e un figlio, che si è sempre rifiutato di lasciare, lei è terrorizzata dalla propria solitudine. Parlano d’amore, di occasioni perdute, di desideri ancora accesi, di disperazioni sempre affioranti. «Se fossimo veramente insieme, tutto svanirebbe», dice a un certo punto Lui. E mentre le parole scorrono, venate di ambiguità, di reticenze e slanci frenati, comincia a serpeggiare il dubbio: chi sono questi personaggi? Specchio di reale normalità o fantasmi?

Ed ecco che interviene una magia teatrale: la lastra muschiata del cimitero gira su una piattaforma e rivela l’interno realistico di una cucina, che si affaccia proprio sul cimitero, a dimostrazione della contiguità fra vita e morte. All’interno ci sono i genitori dell’Uomo, in attesa, come due personaggi beckettiani: fra poco sarà l’ora del funerale dell’anziana nonna. Si dipanano i dialoghi inconsistenti di una coppia matura e stanca, giocati sull’iterazione e l’incomunicabilità: lui (Nicola Pannelli) nel ruolo protettivo ed estenuato, con brontolii quasi avulsi dalla realtà, lei (una splendida e dirompente Milvia Marigliano) nell’ossessione quasi isterica di restare sola e di perdere anche il figlio. «La vita è come un ciclo di nuvole sempre cangianti prima che scenda la notte», dice con terrore.

© Bepi Caroli

Ed è contro questa notte che i personaggi cercano di alzare le loro deboli palizzate. Una difesa sembrerebbe l’amore, declinato in varie forme: coniugale, passione di amanti, affetto filiale. Ma nell’universo di Fosse la costruzione sociale e le priorità dei livelli saltano. Di amore sembra si possa solo parlare, reclamando dagli altri protezione e garanzie. Gli “atti” d’amore sono unilaterali e sembrano portare all’autodistruzione. Ad esempio l’Uomo, scegliendo il divorzio per un nuovo amore, dimentica il figlio: la pienezza racchiude anche il vuoto, le voragini del non detto, del cinismo. La spinta alle scelte sembra dettata più che dal perseguimento della felicità, dalla paura della solitudine: per esistere al mondo devo sentirmi amato. Così sotto la facciata del bon ton, ribolle il magma del dolore e dell’incomunicabilità.

Sul vano affaccendarsi dell’umanità, trionfa il tempo, e il cimitero è il suo regno. Mentre la luce algida taglia i diversi quadri, togliendo peso specifico di realtà, il tempo si contrae e si duplica. Ecco di nuovo la coppia sulla panchina, a raccontarsi di ricordi lontani. Chiusi nella corazza di una nuova vita a due, gli amanti hanno rifiutato il mondo, senza riuscire però ad arginare il tempo e i sensi di colpa. Una serie di funerali mancati (la nonna, il padre), e ora i loro dialoghi stanchi somigliano a quelli della coppia più matura. Nella conclusione, l’atmosfera diventa rarefatta e surreale: i personaggi si aggirano attorno alla panchina del cimitero, quasi fossero proiezioni oniriche di ricordi infranti. Alla fine restano le creature che sembravano più deboli, l’amante, l’ex-moglie, la madre. Procedono aggrappate l’una all’altra: «Dobbiamo andare, è l’ora». E il buio, punteggiato dai lumini rossi del cimitero, le divora. Fosse sembra dirci che la vita è un’allucinazione, si apre dal nulla e si precipita nel nulla. In mezzo, un diluvio di parole per colmare le assenze. «È così che vanno le cose».

 

Sogno d’autunno
di Jon Fosse
regia di Valerio Binasco
Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Teatro Franco Parenti, Milano
22 marzo – 2 aprile 2017

 

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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