I.
Macbeth, la più breve delle tragedie shakespeariane (1605-1608), conserva sempre un profondo, conturbante fascino. Accompagnato da una sinistra fama di portatore di sventura al punto da indurre ad evitare di pronunciarne persino il nome in teatro, “il dramma scozzese” (the Scottish play) vive dell’interferenza continua del sovrannaturale sul reale: streghe, spiriti, fantasmi sono protagonisti costanti, condizionano e determinano le azioni dei personaggi in carne e ossa. Il regista e la compagnia di attori che affrontano la temeraria impresa di rappresentarlo devono mettere in conto di correre un rischio grossissimo: molto facile cadere nel kitsch o, peggio, perfino nel ridicolo. Come trattare, infatti, le sorelle fatali? Al primo incontro coi due eroi vincitori della battaglia, Macbeth e Banquo, quest’ultimo afferma: «Dovete esser donne, tuttavia la barba che avete mi impedisce di ritenervi tali». Donne con la barba? Credibile raffigurarle così? Qui l’eccesso di filologia indurrebbe ad una rappresentazione che provocherebbe il riso degli spettatori e allora addio tragedia. E come farle parlare? Con voce metallica, di vecchia, di bambina? E quante sono? Tre (come le Parche classiche) o un numero indistinto? Come rendere poi il fantasma di Banquo durante la scena del banchetto del Terzo Atto? Visibile al pubblico (con quale effetto?) oppure lasciar pensare che sia una visione del turbato Macbeth? E come rappresentare gli spiriti che profetizzano e che poi sfilano nel Quarto Atto?
Tanti problemi, la cui impostazione e soluzione determina l’esito dello spettacolo. La realizzazione di ogni singola scena dipende dalla particolare interpretazione, dalla chiave di lettura che si intende fornire.
Nel 1961 George Steiner con il suo imprescindibile testo “Morte della tragedia” sostenne con piena ragione che il genere della tragedia non può fare a meno della credenza e dell’esistenza ontologica del trascendente: nel tempo della “morte di Dio” non può che morire anche la tragedia. Ma prima di tale età profezie, apparizioni, fantasmi avevano largo impiego: perché ci si credeva, sia nella tragedia greca (nella più antica a noi pervenuta, I Persiani di Eschilo, dopo le visioni notturne di Atossa appare in scena il fantasma del defunto re Dario) che in quella shakespeariana. Secondo tale tesi, dunque, il sovrannaturale ha una sua presenza corporea, deve apparire in modo concreto sulla scena.
Più recentemente, nel 1998, Harold Bloom ha pubblicato Shakespeare: l’invenzione dell’uomo. Circoscrivendo il discorso soltanto al genio inglese, l’appassionato critico tende a vederlo addirittura come un precursore di Freud: nel suo teatro egli esplora la psiche umana come non è mai stato fatto prima, ne scandaglia le profondità, porta alla luce tutto il buio e tutto il male. Macbeth ne è il perfetto esempio: è il dramma dell’ambizione senza freni. Appena il pubblico lo vede in scena, il barone scozzese è vincitore di una grande battaglia, ha salvato il suo re, Duncan, che gli è cugino. Ottiene la sua riconoscenza e come ricompensa diventa “signore di Cawdor”, ha persino l’onore di ospitare il sovrano nel suo castello. Potrebbe essere già più che appagato così.
No, le streghe (i suoi malefici pensieri?) gli hanno detto che diverrà re: cosa valgono, allora, il vincolo dell’ospitalità, il legame di sangue, il giuramento di fedeltà? Nessuna occasione può essere più propizia. Solo Duncan si frappone fra lui e il trono: basterà ucciderlo, far cadere la colpa sulle sue guardie, insinuare che sono stati i suoi figli a progettare il parricidio. Tutto facile e tutto credibile.
Diventa re: potrebbe essere felice, adesso. No, neppure ora: teme l’amico Banquo, tanto più moralmente retto di lui, teme la profezia (la paura segreta del suo cuore?) che da Banquo nascerà una lunga stirpe di re. E allora, bando all’amicizia, bisogna farlo uccidere, sia lui che il figlio, che però riesce a fuggire. Poi ci si deve garantire il futuro, il potere è sempre precario: vanno sterminati tutti gli oppositori, in una serie continua di massacri di innocenti, che hanno l’unica colpa di gettare un’ombra sul suo trono.
Macbeth non è mai sazio di sangue: gliel’hanno imposto le streghe o il suo animo smodato e perverso? Spiriti e fantasmi potrebbero essere, come gli diagnostica la Lady durante la straordinaria scena del banchetto, accessi di delirio, immagini scaturite dalla sua paura: visioni di una mente alterata, insonne da troppe notti.
Già, la Lady, che non ha neppure un suo nome proprio: tali visioni infetteranno anche lei. Il contagio del male altera la sua psiche: lei così irriducibile, così pronta a spronare al delitto il consorte. Non madre di figli, ma di progetti di morte, senza paura nel portare a compimento il crimine sporcando di sangue i servi del re e macchiandosi le mani che con noncuranza lava subito dopo.
All’inizio del Quinto Atto la Lady è sonnambula: ciò che era stato facile compiere un tempo, ora viene reiterato spasmodicamente, in una condizione di delirante incoscienza. Quelle mani non vogliono tornare pulite, resta sempre una macchia: l’aveva profetizzato Macbeth a proposito delle sue nel Secondo Atto: Che mani sono queste? Ah, mi strappano gli occhi! Tutto l’oceano del grande Nettuno potrà mai lavare via, del tutto, questo sangue dalle mie mani?
Con le sue mani violente, come rivela il nuovo re Malcolm nell’ultima scena, la diabolica regina si è suicidata; con le sue mani Macbeth sguaina la spada per l’ultimo duello, a lui fatale, contro Macduff: l’affronta in preda ad un delirio di onnipotenza, crede di essere invulnerabile, si fida dell’ultima profezia delle streghe.
Che non ha però saputo interpretare. Viene decapitato, l’ordine è ripristinato, il legittimo re torna sul trono, il bene provvisoriamente trionfa.
Sino alla prossima apparizione delle streghe.
Oppure sino alla prossima pazzia omicida di una mente alterata.
II.
Il testo shakespeariano è di vertiginosa bellezza. Tradurlo è impresa notevole. La cosa che più colpisce del Macbeth portato in scena al Teatro alla Corte di Genova di domenica 22 gennaio (regia di Luca De Fusco; produzione Teatro Stabile di Napoli; Teatro Stabile di Catania; Napoli Teatro Festival Italia) è proprio la traduzione di Gianni Garrera.
Giustamente egli sostiene che in Shakespeare non c’è un’unica lingua, ma tante lingue diverse, un impressionante intreccio di registri stilistici e di parlate, una formidabile presenza di doppi sensi, un ricco gioco sui campi semantici di molti termini (valga per tutti “sangue”, da quello regale di Duncan a quello matriarcale della Lady a quello sacrificale di tutte le vittime del tiranno). Il frutto di un lavoro attento e rispettoso del testo è una resa in italiano perfettamente fluida e molto efficace: tutto scorre e si imprime al tempo stesso nella mente di uno spettatore attento.
La regia, poi, è assolutamente felice: Luigi De Fusco media ottimamente tra le due proposte interpretative prima ricordate, quella di Steiner e quella di Bloom. Le streghe sono al tempo stesso reali e irreali, con concrete fattezze femminili ma anche inserite in un contesto che non ha nulla della brughiera scozzese (inizialmente sono attorno ad un gigantesco uovo: l’uovo cosmico, che secondo Mircea Eliade rappresenta il principio della ripetizione, l’immagine della cosmogonia?); parlano con un’unica voce, fondono in sé trinità e unità. Il fantasma e gli spiriti sono invece immagini riflesse: proiezioni della mente malata di Macbeth?
De Fusco prosegue lungo la strada intrapresa già con la magnifica Orestea dello scorso anno, che chi scrive ha avuto il grande piacere di vedere sempre a Genova. Là come qua, l’ausilio di proiezioni supportava benissimo il testo: una volta tanto l’immagine al servizio della parola, e non viceversa. E un’immagine mai banalmente didascalica, ma sempre di grande impatto: basti ricordare l’insistenza sull’immagine del rapace notturno che spiega a volo le proprie ali e sembra avventarsi contro lo stesso pubblico (la civetta, l’uccello delle tenebre, è una sorta di leit-motiv nel testo). Efficace anche l’idea di presentare spesso i protagonisti con la schiena al pubblico: ma lo schermo sul fondo funge da specchio, ci fa vedere la loro mimica facciale, i trasalimenti dei volti, l’intensità delle diverse espressioni.
I numerosi attori intervenuti meriterebbero ciascuno una menzione particolare: tutti in parte, tutti molto bravi. Un commento specifico per la bella voce fuori campo di Angela Pagano, che da sola esprime, con ammirevole controllo, tutta quanta la componente del sovrannaturale: streghe e spiriti parlano tutti attraverso di lei. Una sorta di medium? A mio parere, l’idea dell’unica voce rafforza il convincimento che, come osserva De Fusco nelle sue note di regia, «tutto è ambientato nella testa del protagonista».
Magistrale, infine, l’interpretazione della coppia di protagonisti.
La stupefacente Gaia Aprea, vista lo scorso anno nel doppio ruolo di Cassandra e di Atena nella già ricordata trilogia eschilea, è ora una Lady magnifica: in un ruolo tremendo come questo, non c’è corda che non faccia vibrare, prima posseduta dalla monomania del potere poi demone implacabile nello spingere lo sposo al delitto poi sempre più psichicamente alterata sino all’indimenticabile scena del sonnambulismo.
Ricordavo Luca Lazzareschi come bravissimo interprete di un Amleto di qualche anno fa: l’ho ritrovato qui come straordinario Macbeth. Non si tratta solo, nel suo caso, di recitar bene, si tratta di avere quell’indefinibile requisito che è il carisma, tipico dei grandissimi. Lui ne è indubbiamente provvisto: ogni sillaba del testo la rivive interiormente, il percorso di un’anima avviata alla perdizione è compiuto con un coinvolgimento e, al tempo stesso, una padronanza ammirevoli, sino a quel suo stare disperatamente attaccato al trono, sino all’ indimenticabile monologo finale, sino al duello “rallentato” con Macduff, coi colpi delle lame cozzanti che risuonano in tutta la sala.
III.
La vicenda di Macbeth è, davvero, piena di rumore e di furore: ma non è vero che non significhi nulla, tutt’altro. Anzitutto tiene inchiodata l’attenzione del pubblico per due ore e quaranta minuti, lo carica di tensione, muove una marea di sentimenti intensi e da questi catarticamente – come afferma il genio di Aristotele – e terapeuticamente ci depura.
E un insegnamento, ieri come oggi, lo trasmette con forza: che il male è sempre in agguato, che non è affatto semplice esorcizzare i suoi spettri, anzi è molto più facile diventarne succubi, cedere alle sue lusinghe. Nella storia degli uomini, purtroppo, le streghe che ammaliano il Macbeth di turno, reali o immaginarie che siano, hanno sempre fatto devastanti scorribande.
Stefano Casarino