Per fortuna talvolta i successi osannati da critica e pubblico ritornano. Se lo avete perso nel 2012, è il momento di correre al Teatro Elfo-Puccini e non lasciarsi sfuggire Alice Underground.
Ricordate la bimba bionda che insegue un coniglio in perenne ritardo e spalanca gli occhioni blu su un mondo meraviglioso? Dimenticate questa versione disneyana tenera e mielosa del capolavoro di Lewis Carroll: i due registi Ferdinando Bruni e Francesco Frongia rivalutano l’aspetto di complessa fantasmagoria filosofica, venata di inquietudine. A guidarci è una Alice sbarazzina, volutamente opposta alla tranquillizzante visione del cartoon: vestitino bianco, ai piedi le All Stars e una folta chioma ricciuta nera. Perfetta nel ruolo è Elena Russo Arman, capace di stupori infantili, urletti di sorpresa o di terrore, goffa, petulante, caparbia, sicura e curiosa ai limiti dell’incoscienza, ma sempre pronta a rimettersi in gioco.
Lo spettacolo è un piacere per gli occhi. Trecento acquerelli coloratissimi di Bruni, affidati alla cura tecnologica di Frongia, sono diventati un flusso continuo di proiezioni che trasformano la scena in una variopinta lanterna magica. Sulle tre superfici bianche della scena si rincorrono immagini spettacolari: farfalle screziate, insetti, funghi, e poi un bosco di altissimi cipressi dai tronchi viola, e fusti con occhi e scarpe, luogo misterioso dove si aprono strane porte e rose antropomorfe, mentre in cielo volano pecore e teiere… Disegni dal tratto in apparenza infantile sono l’orizzonte necessario per esplosioni visionarie. Ultimamente a teatro abbiamo visto molte proiezioni, per lo più sfondi dinamici di commento. In questo spettacolo invece si crea un cortocircuito tra finzione e realtà, del tutto in sintonia con il tema dell’opera di Carroll. Gli attori infatti interagiscono con le figure in movimento, anzi sono immersi in questa vorticosa tavolozza. La parete di scena cela porte, nicchie e sportelli da cui si affacciano gli attori, circondati e trasfigurati dai disegni: ecco la testa di Alice che si affaccia lassù in alto, mentre sotto di lei dondola il disegno del suo corpo gigantesco, ecco sbucare il viso di Umberto Petranca (che sostituisce un rutilante Bruni nell’attuale messinscena) e diventa Brucaliffo nel suo fungo, con tanto di narghilè e finte nuvolette di fumo.
Gli incontri, i personaggi e le sorprese non finiscono mai. Non può mancare il Gatto del Cheshire, che parla sornione e si volatilizza in un ghigno beffardo, e poi la Lepre Marzolina e il Cappellaio Matto, la Regina Bianca e la Regina Rossa, Humpty Dumpty.
Lo spettacolo è un inno al colore e alla metamorfosi continua: i tre attori che circondano Alice si alternano impersonando una folla di figurine con maschere, travestimenti e variazioni vocali caratterizzanti. Tutti bravissimi, con una menzione di merito per Ida Marinelli e Matteo De Mojana, impegnato anche nell’esecuzione delle musiche dal vivo.
Dove è diretta Alice? Vuole esplorare e conoscere. Nel suo percorso di crescita, per sbadataggine o spesso per imprudente curiosità, commette errori, come nel famoso episodio in cui impara a sue spese che “diventare grandi” può celare il rischio di diventare “lunghi” e mostruosi. «Chi sei tu?» è la domanda che le pongono a più riprese i personaggi e per rispondere Alice dovrà mutare prospettiva e immergersi in labirinti verbali giocati sul paradosso. Se in questa atmosfera onirica e visionaria tutto è pronto alla metamorfosi, allora anche le parole, ribelli, cavalcano ogni possibilità. I modi di dire diventano realtà, per cui il Tempo si offende se lo si batte (per ritmare una canzone), la capra siede viva e vegeta sopra la panca, dal Ghiro apprendiamo che chi vive in un burrone si nutre di burro.
I personaggi vivono con leggerezza le trovate degli infiniti calembour, ma l’effetto è straniante: la lingua esplode nel trionfo del non-senso. Alice si diverte ma è confusa, cerca il bandolo della matassa, sogna di diventare regina ma prima deve capire le regole del gioco. Ad esempio, la relatività del concetto di tempo, per cui «marmellata a giorni alterni» è legge crudele, perché la dolce merenda è possibile ieri o domani, ma «oggi non è mai alterno»; e così pure la memoria può viaggiare nei due sensi, e si può ricordare il futuro.
Divertimento assicurato per una recitazione coinvolgente e giochi linguistici che fanno leva sul paradosso, nella consapevolezza, vibrante di inquietudine, che tutto questo mondo fantastico è uno splendore effimero, sull’orlo di un abisso, o meglio «nella culla del nulla». Quando le luci si spengono, il bianco delle pareti spoglie sembra quasi irreale. Gli applausi scrosciano sulla canzone dei Beatles The Octopus’s garden (https://www.youtube.com/watch?v=V-BdGchS0yk), che ha accompagnato anche l’ultima scena: una stretta di mano ha sancito l’alleanza tra il mondo reale e quello della fantasia. L’Unicorno si avvicina incredulo ad Alice: «Ho sempre pensato che le bambine fossero mostri favolosi», dice, strappandoci un sorriso, perché è proprio quello che stavamo pensando noi, insieme ad Alice. «Ma ora che ci siamo visti, se tu crederai in me, io crederò in te». Patto reciproco di co-esistenza che, pronunciato a teatro, territorio di ombre e di sensi, acquista ancora più forza.
Alice Underground
da Lewis Carroll
regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
Teatro Elfo Puccini, Milano
13 dicembre 2016 – 8 gennaio 2017