«Un grande foglio di carta, su cui si può scrivere, ora, quello che si vuole». Così, con una metafora, Lorenzo Loris sceglie di rappresentare il corpo senza vita di Giangiacomo Feltrinelli, che nelle ore immediatamente successive al suo ritrovamento appare mutilato ma che sarà l’imprescindibile punto di partenza con cui si dovranno misurare tutte le successive ricostruzioni della vicenda. Un corpo, anzi un cadavere: la cruda e fredda realtà dei fatti, inerte, che incombe su ogni narrazione, allo stesso tempo muto e così simbolicamente carico di significato.
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Ne L’Editore, adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Nanni Balestrini che richiama nel titolo l’appellativo con cui nella rappresentazione ci si riferisce a Feltrinelli, in scena al Teatro OutOff di Milano dal 13 al 23 dicembre, la rilevanza data al corpo è cruciale e innegabile. Già nella prima scena le parti del cadavere, centro focale dell’attenzione, sono rese in maniera molto efficace da un mucchio di fogli di carta sfogliati di volta in volta da un personaggio diverso, che acquistano spessore e concretezza grazie alla recitazione ricca di termini del lessico medico e anatomico con cui gli attori riportano le operazioni pre-autopsia. E concreto più che mai per le circostanze è il fatto attorno a cui ruota l’intero spettacolo, la morte di Feltrinelli, avvenuta il 14 marzo 1972 a seguito della deflagrazione improvvisa di una carica di esplosivo in corrispondenza di un traliccio dell’energia elettrica fuori Milano («che, se portata a termine, avrebbe lasciato al buio l’intera città», così suggerivano i giornalisti in quei giorni).
A mettere in scena questo adattamento teatrale, vi sono sei giovani attori ( Daniele Cavone Felicioni, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Camilla Pistorello, Emilia Scarpati Fanetti, Matteo Vitanza) che si muovono sulla scena in un intersecarsi dinamico di piani: un primo piano, una sorta di cornice narrativa, in cui impersonano un gruppo di amici di Feltrinelli, che si ritrovano vent’anni dopo per dare ordine ai fatti di quel giorno attraverso la costruzione di uno spettacolo teatrale sulla vicenda, e poi un secondo piano, la narrazione vera e propria in cui i personaggi sono sempre loro ma venti anni prima, all’indomani della morte dell’editore. A questo sdoppiamento di piani si aggiunge un’ulteriore sfasatura temporale, racchiusa nella scelta del regista di affidare il tutto a dei giovanissimi che, per un motivo soprattutto anagrafico, sono molto distanti da quella realtà ma che tuttavia riescono a restituirla con grande coinvolgimento, fisico ed emotivo.
Più che l’uomo Feltrinelli, la cui figura viene in gran parte lasciata trasparire dai titoli e dai trafiletti dei giornali dell’epoca, che lo definiscono alternativamente «Boy Scout della rivoluzione», «bambino capriccioso», «alto borghese degenerato», epiteti che gli amici commentano con sdegno e che poi cercano di stemperare con dei brevi racconti di vita vissuta con lui («non si fermava mai, come in quel viaggio in macchina in cui non mi voleva mai fare scendere, era sempre in corsa con la vita»), L’Editore riporta eccellentemente il contesto storico dell’Italia di quegli anni, con lo svilupparsi dei movimenti legati alla sinistra extraparlamentare come Lotta continua, Potere Operaio, il Movimento Studentesco e della violenza che ha permeato gli anni ’70, i suoi scenari politici e persino le relazioni interpersonali. «Qui sta diventando tutto solo violenza!» è l’urlo straziato di una ragazza del gruppo. Già dalle prime scene de L’Editore, nel clima di paura, di sospetto, di clandestinità in cui si trovano gli amici dell’editore a seguito del riconoscimento del cadavere, è evidente un disaccordo sostanziale tra i personaggi su quanto ognuno di loro fosse disposto ad accettare la violenza nella lotta.
In questa atmosfera, il conflitto non è solo verbale, diventa fisico, corporeo appunto, intacca ogni azione e ogni relazione. Si tratterà di un conflitto dilagante con toni accesi anche nei rapporti interni allo stesso gruppo dei personaggi; emblematica è una discussione che si conclude con un azzuffarsi concitato e con una violenza che dalle urla passa alle mani, al punto da mettere addirittura in discussione rapporti di coppia esistenti al loro interno. «Persino scoparla sarebbe stato ora più difficile», si dice riferendosi a uno scontro quasi irreversibile nato all’interno del gruppo, tra la giornalista e il leaderino, precedentemente legati sentimentalmente, ora in disaccordo radicale sull’interpretazione della morte dell’editore. Da una parte il tentativo forse consolatorio di convincersi della sua innocenza, accogliendo l’ipotesi dell’omicidio, voluto dallo stato al fine di screditare il personaggio, le sue attività e le sue idee, dall’altra la rivendicazione dell’atto eversivo dell’editore da parte di una sinistra che sente il dovere e l’urgenza di prendere le armi, che potrà cambiare la società solo rovesciandola, e del resto si sa, «la rivoluzione non è un pranzo di gala», diceva Mao Tse-Tung, chiamato in causa e acclamato assieme a Marx e Lenin nella scena del funerale di Feltrinelli da un coro di miltanti.
Alla luce di questi contrasti insanabili persino tra compagni che fino a quel momento avevano condiviso un percorso più o meno unitario, la morte di Feltrinelli rappresenta uno spartiacque, un evento decisivo, che riposiziona i compagni e li guida in direzioni diverse. Sul lato più radicale, la consapevolezza della consumazione definitiva di una certa esperienza rivoluzionaria che aveva avuto il suo culmine nell’autunno caldo del ’68 porta alcuni, come il leaderino, a sposare l’esperienza delle BR e della lotta armata. Nonostante il clima di conflitto e di violenza con cui tipicamente vengono raccontati gli anni ’70, lo spettacolo de L’Editore ha il pregio di riconsegnare alla memoria complessa di quel periodo anche delle note cromatiche accese e gioiose. E lo fa attraverso una certa vivacità dei movimenti e della fisicità dei personaggi, con la freschezza delle loro espressioni e momenti in cui la tensione si scioglie e scoppia una risata (apprezzatissima l’imitazione di Andreotti da parte dell’ex partigiano), ma soprattutto con i canti, accompagnati da una chitarra, quelli della resistenza e quelli popolari, da Bandiera rossa, a Bella ciao, a L’Internazionale, fino a Pugni chiusi dei Ribelli, che smaschera l’abbandonarsi dei personaggi a un sentimento tutto privato, che si eleva dal “buio del mondo” e sembra ammettere che non c’è solo il fuori, la storia, i macro problemi.
Riuscitissima è la riflessione di L’Editore non scontata e trasversale alle scene, forse preparata dalle varie sfasature temporali, sul dopo, sul tentativo sofferto e duro di ricostruire le proprie diverse individualità una volta che quel progetto, quell’ideale, quella lotta collettiva, l’Idea, il Comunismo stesso si sono sgretolati e hanno lasciato le persone che anche ci avevano creduto nude, prive persino di un linguaggio comune con cui comunicare tra loro. Così recita brillantemente la Scarpati Fanetti, nel ruolo di lei, lamentando quella concentrazione ossessiva e unilaterale sui macrosistemi che reggono il mondo là fuori che ha offuscato la costruzione di relazioni autentiche tra le persone: «Io non voglio passare il resto dei miei giorni a pensare a tutto quello che succede fuori, o a leggere i giornali, perchè l’unica volta in cui mi sono sforzata di parlarti tu leggevi i giornali![…]L’importante è sempre stato tutto fuori». Anche lui, stimolato da questo sfogo di lei, che tuttavia non fa nessuna concessione al patetico o al sentimentale, ammette che «bisogna cambiare le nostre vite prima di cambiare il mondo», rinnovando la sua dedizione alla causa del miglioramento di una società «che fa schifo» ma insieme ammettendo un fallimento nelle modalità che imporrà a tutti di modificare ogni cosa a partire da se stessi, da una costruzione quotidiana della possibilità di sperimentare la rivoluzione.
La Storia, come tutto lo spettacolo di L’Editore dimostra, ha aperto strade diverse a questa esigenza di nuovo, che in alcuni suoi aspetti può essere letta come un ritorno al passato di una «resistenza tradita», a cui l’ex partigiano fa riferimento; la fase apertasi dopo la morte di Feltrinelli ha visto gli stessi amici prendere direzioni contrastanti, ma tutte nel tentativo di riconfigurazione di sé che il contesto esigeva e che avrebbe trovato la sua attuazione solo nell’ottica di una rivoluzione in ogni atto quotidiano. Fa riflettere soprattutto l’inserimento di queste constatazioni in una vicenda e in un contesto le cui descrizioni e narrazioni tendono sempre a delineare un quadro in cui le persone, gli individui con le loro relazioni , le loro amicizie e le loro quotidianità sono messe in secondo piano e di cui ci si dimentica l’esistenza e la rilevanza.
Ne L’Editore, uno spettacolo sull’incontro-scontro tra la vita quotidiana e la storia, al contrario, tutto questo bussa alla porta dei personaggi e si fa sempre più urgente: se da una parte mostra per contrasto la forza di un’esperienza ormai passata di militanza a sinistra collettiva e unitaria sotto le ali di un obiettivo comune e chiarissimo nelle teste di tutti, anche attraverso un immaginario collettivo e una simbologia consolidata, dall’altra fa emergere i vuoti lasciati da una simile esperienza che non ha saputo valorizzare il “dentro”, concentrata su un “fuori” troppo violento per poter essere giustificato e sostenuto ancora a lungo. Tornare a riflettere su una vicenda che potrebbe apparire come un «mero fatto di cronaca», dimenticato in un passato lontano, e consegnare la responsabilità di queste riflessioni a sei giovani attori, fa pensare che si tratti di discorsi che sanno ancora dirci qualcosa e che andrebbero rivitalizzati con il coraggio che la nostra epoca ci impone e gli strumenti interpretativi che dovremo saperci costruire.
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L’Editore
Scena Daniela Gardinazzi, costumi Nicoletta Ceccolini, luci Alessandro Tinelli, musiche Simone Spreafico, elaborazioni video Lorenzo Fassina, collaborazione ai movimenti Barbara Geiger, foto di scena Agneza Dorkin
di Martina Corti
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