Nella narrazione di guerra, il fotografo documentarista e concettuale Richard Mosse si distingue a voce alta all’interno della massa di immagini e informazioni, da cifre, che riguardano i conflitti nel mondo.
Dal 2010 al 2013 Mosse e alcuni suoi collaboratori, Trevor Tweeten e Ben Frost, hanno viaggiato nella Repubblica Democratica del Congo, nel suo paesaggio umano e fisico, cercando un modo di descrizione adeguato. Fin da subito i suoi lavori ha ricevuto un’attenzione particolare fino ad essere tra i più ammirati alla Biennale di Venezia nel 2013.
Il modo di comunicare del fotografo irlandese, unico nel suo genere, riesce a usare la bellezza come metodo descrittivo per attivare gli occhi dello spettatore verso un conflitto così complesso e sottovalutato dai media come quello del Congo.
Il metodo di Mosse non è certo lontano dalle critiche, ma di sicuro un approccio così totalmente personale e personalizzante, in un contesto simile, merita più di una parola.
La Repubblica Democratica del Congo vive una sorta di maledizione nella maledizione: una guerra di cui si sente poco parlare e priva di una narrazione chiara, se non per gli eccessi o per limitate statistiche desolate.
5,4 milioni di morti tra il 1998 e il 2007, 400.000 stupri in un anno. Anche se i numeri descrivono una cruda verità, una violenza che diventata numero sembra perdere anche tutta l’indignazione che merita.
Immaginare 5,4 milioni di morti sovraccarica la mente. Non c’è nessuna scala di indicazione morale che aumenta in modo direttamente proporzionale alla sofferenza umana. La nostra sensibilità ha bisogno di una storia, di un volto umano collegabile a altrettanti decessi.
Nel caso in cui il soggetto sia la storia del Congo è di sicuro un concatenarsi di eventi troppo complesso per imbarcarsi in un semplice e unico racconto. Solamente nel corso degli ultimi 15 anni, più di 40 diversi gruppi armati hanno combattuto attraverso un paese grande quanto l’Europa occidentale causando non solo morti nell’immediato ma anche un numero di perdite di vite senza proporzioni per le malattie e la fame causate dai combattimenti. Non ci sono eroi e neanche troppi vincitori.
È in questo clima che si inseriscono il lavoro e le fotografie di Richard Mosse: dentro al paesaggio, all’interno delle storie di cui stravolge completamente i colori e l’atmosfera, ma non l’essenza.
Nel 2002, tutti i principali belligeranti congolesi hanno firmato un accordo di pace che ha portato a termine una serie di guerre che iniziate nel 1996. Hanno formato un governo di transizione e l’esercito ha portato alle elezioni del 2006, vinte dal presidente attuale Joseph Kabila. La sequenza di immagini raffigura giovani soldati, più in particolare l’integrazione dei ribelli del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (Cndp) nell’esercito nazionale congolese nel 2010.
Le immagini che risultano però non sono le solite immagini che ci aspetteremmo da quei luoghi di conflitti e pace a intermittenza. Viene subito da pensare che non si tratta del loro colore: questo esercita sull’occhio una forza di trazione verso una diversa gamma di colori, letteralmente lo porta a riconoscerli o meno. Utilizzando la pellicola a infrarossi Kodak le immagini della vegetazione del Congo orientale sono di un magenta surreale mentre le uniformi dei soldati diventano violacee. Ci si sente catapultati in uno spazio surreale-onirico come se lo spettro di colori normali e i soliti parametri di valutazione che abbiamo mentre guardiamo un’immagine siano messi in discussione in una sola volta, all’interno di una sola inquadratura.
Ma i paesaggi di Mosse non sono un suggerimento alla fantasia, piuttosto alla critica: un tentativo di sfidare la fotografia documentaria, e di impegnarsi con gli aspetti invisibili, nascosti e immateriali del Congo e della sua situazione di un conflitto tragicamente in corso.
L’attrazione a utilizzare questo tipo di pellicola deriva da una lettura dello scrittore Joseph Conrad e del suo Cuore di Tenebra (1899) in cui scrive
«Siamo stati tagliati fuori dalla comprensione di ciò che ci circonda; abbiamo nuotato nel passato come fantasmi. È come un arte del tutto, a quel tema cupo doveva essere data una risonanza sinistra, una tonalità propria, una vibrazione continua per soffermarsi su un orecchio dopo l’altro»
Richard Mosse esprime la necessità di una forma adeguata per descrivere meglio questa “risonanza sinistra” e con il suo progetto scopre che utilizzare la pellicola a infrarossi soddisfa il desiderio di perseguire qualcosa di ineffabile.
La pellicola Aerochrome a infrarossi Kodak, nata per semplificare la guerra, torna a descrivere sotto un’altra luce un’altra guerra. I primi modelli sono stati sviluppati dai militari degli Stati Uniti del 1940 per rilevare i nemici mimetizzati e per rivelare quella parte dello spettro di luce che l’occhio umano non può vedere. Insomma Mosse riusa una tecnologia inventata per rilevare le posizioni nemiche nel sottobosco per mettere in discussione le immagini stesse.
Le fotografie che diamo per scontate dal Congo sono ripetute nella nostra mente: il comandante della milizia spietato, la vittima di uno stupro, un contadino inconsapevole. Nelle immagini di Mosse, i cliché fotografici del Congo sono rappresentati in un contrappunto di colore rosa elettrico, blu e lavanda. Rappresentando il conflitto con uno spettro invisibile di luce infrarossa ci spinge a guardare la tragedia in tutt’altro modo.
Le opere realizzate durante le visite di Richard Mosse in Congo hanno portato a due corpi di lavoro differenti. Uno è Infra (datato 2010-2011), da cui diverse immagini di grandi dimensioni sono stati incluse in più mostre collettive e personali. Non è un caso che la traduzione latina per il prefisso Infra voglia dire al di sotto: non solo Mosse si riferisce allo spettro infrarosso della luce reso visibile attraverso l’uso della particolare pellicola per generare l’immagine, ma il titolo fa anche riferimento al modo in cui il conflitto è sceso sotto il radar, per così dire, in termini di suscitare una risposta da parte della comunità internazionale e suggerisce che la complessità del conflitto in Congo è incongruente con l’attenzione dei media che sembra privilegiare conflitti più semplici da spiegare.
Inoltre, il titolo Infra fa riferimento al concetto di Giorgio Agamben dell’homo sacer, secondo cui gli “uomini sacri” sono al di fuori della giurisdizione umana senza essere portati nel regno della legge divina. Un uomo che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio e che non doveva però essere messo a morte.
L’altro corpo di lavoro Mosse prodotto nel Congo orientale è The Enclave (2013), un film installazione che è stato esposta al Padiglione d’Irlanda per il 55° della Biennale di Venezia.
In fotografia, la documentazione è sotto processo dalla nascita dello stesso mezzo. Il mondo dei fotografi si è scosso di fronte alla documentazione della guerra civile degli Usa, quando i cadaveri dei soldati morti venivano riorganizzati per apparire più coinvolgenti emotivamente. Da allora si consumano le conversazioni attorno alla rappresentazione del conflitto nel giornalismo contemporaneo, anche al di fuori del contesto della guerra.
In questo caso Richard Mosse riesce sicuramente nell’intento di porre nuove domande allo spettatore, domande mirate e suggestioni diverse dirette non solo alla superficie del problema, ma anche al suo interno.
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