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© Luca Piva

Oates: quando il buio
divora i sentimenti

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3 minuti di lettura

Il Teatro Elfo-Puccini di Milano ha un nuovo logo disegnato dal grande Mimmo Paladino: pochi segni evocativi tracciano un volto stilizzato e misterioso, mentre due svirgolature sopra la testa sembrano corna di un animale primordiale. Forse il “capro” alle origini della tragedia oppure il mostruoso che convive con il nostro dirci “uomini”. Parola d’ordine della stagione teatrale è dunque «mito presente», come spiega Ferdinando Bruni nella brochure: un teatro che reinventa continuamente il mito ed è voce sintonizzata con il nostro oggi. La vocazione al contemporaneo è d’altra parte nel dna degli “Elfi”, che hanno sempre riservato uno sguardo privilegiato al mondo angloamericano, con prove di rara intensità.

Dopo Dissonanze, in scena all’Elfo nel 2010, il regista Francesco Frongia si accosta a L’eclisse (1991) di Joyce Carol Oates (1938-), tra le più prolifiche e amate autrici statunitensi. La sua è una scrittura inarrestabile e variegata (poesie, saggi, racconti, romanzi, drammi) che sgorga da un’apparente base realistica: miserie metropolitane di un’umanità ai margini, sconfitta dalla vita e fisicamente carnale. La violenza, cifra della nostra contemporaneità, è declinata in tutte le sue forme da questa Maestra della penna in odore di Nobel, che con elegante raffinatezza sa valicare le etichette di genere (noir, mystery) per dirci che «i mostri sono fra noi».

Non ci sono qui morti ammazzati, stupri o pregiudizi razzisti; il dramma si svolge in un interno borghese e mostra lo scontro fra una madre (Ida Marinelli) e la figlia (Elena Ghiaurov).

© Luca Piva
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La superficie è quella di uno “studio” sociologico, con mordente caustico e istanti di quasi-comicità. Pochi ma decisivi gli accenni all’America (l’immancabile talk show televisivo, popcorn e birra, Hollywood, superalcolici ipocritamente celati in sacchetti di carta), ma la situazione è universale. La piattaforma elegante su cui si muovono le protagoniste è un metaforico ring dove si sfidano due solitudini e si consuma il disfacimento dei rapporti umani. Fra le donne non c’è dialogo: la figlia Stephanie sta vivendo il momento cruciale della propria carriera politica come attivista femminista, ma resta impigliata in drammi irrisolti del passato (la mancanza del padre), e anzi accusa la madre di invidiare il suo successo. È una figlia non cresciuta, che sembra nascondere fragilità e incertezza dietro il paravento dell’esasperazione e dell’accudimento come obbligo sociale. A dominare la scena è però l’anziana Muriel, nella sua indifferenza e compiaciuta tirannia sulla figlia, con capricci, farneticazioni e comportamenti bizzarri.

Quelle che sembrano semplici schermaglie quotidiane, disegnano un difficile rapporto di odio-amore, dipendenza affettiva venata di competizione e feroci ritorsioni: una tensione sotterranea è pronta a esplodere, in una dinamica di reciprocità vittima-carnefice.

Pregio di questa messinscena è la disseminazione di indizi per cogliere il sottotesto critico della Oates, contro le pretese di quel razionalismo occidentale che si regge sul primato dello sguardo (vedo quindi so): nulla è come sembra a prima vista. «L’occhio vede ciò che il cervello vuole vedere», ricorda Stephanie. E se tutto, compresa la demenza senile di Muriel, fosse un inganno per gli occhi?

Strepitosa l’interpretazione della Marinelli, grazie alla sua nota capacità di trapassi tonali: ci appare vecchina ingenua, indifesa, spensierata, ma all’improvviso sbarra gli occhi accecata dai demoni della sua mente (veri o inventati?), diventa furiosa, eccitata, pungente, maliarda, «imbevuta del sentimento tragico della vita», come afferma con ironia il suo personaggio.

© Luca Piva
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Un telo bianco copre inizialmente la scena e poi scorre fino ai contorni arrotondati delle quinte, disegnando la visuale degli spettatori nella forma di un quasi-schermo, o meglio di un grande occhio che sbircia nell’intimità delle due donne. Siamo noi allora gli estranei spioni di cui ha paura Muriel e sono nostri gli sguardi giudicanti che teme Stephanie?

Nell’elegante decoro borghese, due quadri con al centro della tela scura una sfera, forse una pupilla sgranata o un pianeta orbitante nello spazio siderale. Infatti il testo è percorso da un’inquietante vibrazione “astronomica”: spesso i ragionamenti sconnessi di Muriel, docente di scienze in pensione, attingono all’astrofisica, soprattutto quando lamenta che i suoi occhi sono perforati da «lame di buio», e allora anche la luce e la musica di scena sottolineano questi suoi momenti di astrazione solitaria in un mondo “altro”. I medici attribuiscono le sue stramberie a un angioma capillare nel cervello, ma lei lo chiama “il mio buco nero” e lo sfrutta come un’occasione per ritagliarsi margini di libertà, che hanno il sapore della saggezza dei folli. La sua apparente distanza dalla realtà le permette persino una consapevolezza “cosmica” su un futuro (forse non troppo) remoto: la Terra imploderà fino a diventare a sua volta un buco nero, pronto a divorare e bloccare il Tempo.

Che cos’è l’eclisse del titolo? Il momento in cui la luce è coperta dal buio, le certezze crollano, il mondo appare in ombra e si profilano inquietanti prospettive. Infatti, in un finale a sorpresa, la lucida razionalità di Stephanie crolla, sopraffatta dall’apparente buio della mente di Muriel.

© Luca Piva
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Allo spettatore resta il dubbio che per l’umanità contemporanea la galassia dei sentimenti sia un grumo irrisolto di ambiguità, uno scontro di gelide monadi solitarie, un’illusione ottica come il tremolante luccichio delle stelle.

L’eclisse
di Joyce Carol Oates
regia di Francesco Frongia
Teatro Elfo Puccini, Milano
15 novembre-4 dicembre 2016

 

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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