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Scena dello spettacolo da http://www.lavocedinewyork.com

“The Pride”: il tempo maestro
della verità dei sentimenti

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5 minuti di lettura

È sempre difficile per un attore, quando il suo volto e il suo nome si legano indissolubilmente ad un personaggio, uscire da quei panni che lo intrappolano e legano ad una sola maschera e mostrare la propria versatilità. Certamente quando il pubblico vede Luca Zingaretti l’immediato pensiero va a Montalbano, all’uomo dall’accento siculo, un po’ rude, un po’ tombeur de femme. Per questo accorgersi che nel cartellone del Piccolo Teatro di Milano Zingaretti è regista e interprete di uno spettacolo intitolato The Pride suscita meraviglia e curiosità nel voler rendersi conto se la prova dell’attore, che pare doversi cimentare in qualcosa di così fuori dal suo solito canone, sarà superata.

The Pride, dramma di Alexi Cambell, è un titolo parlante (si intuisce, cioè, che la storia principale indagherà le relazioni omosessuali) e che potrebbe suscitare pregiudizi nel futuro spettatore. «Il solito voler sbandierare l’omosessualità ed i suoi diritti», si potrebbe pensare, immersi in un periodo di gay-pride (appunto), leggi sulle unioni civili et similia. Quasi che la carica innovativa e poetica del testo teatrale sia cosa da passare in secondo piano davanti a un tale giudizio “a pelle”. Ma poi l’illustre nome del regista spinge – per fortuna – ad approfondire.

Una volta a teatro ciò che si disvela è una storia per nulla banale, per nulla scontata, carica di forza drammatica e drammaturgica ed appagante nella sua resa scenica e scenografica. Certo, il testo ha come tema di fondo l’omosessualità, ma non solo e non semplicemente questo. L’idea narrativa di Cambell si serve di un espediente che complica i piani narrativi giocando sulla temporalità. L’azione, infatti, si svolge in due periodi storici distinti: il 1958 e il 2016. Si potrebbe dire, quindi, che vengano narrate due storie diverse, ma in realtà ciò non sarebbe del tutto esatto.

Certo, le vicende sono due e sono di natura differente: la prima, quella ambientata nel secondo dopoguerra, ha come protagonista una tipica coppia borghese londinese, nella quale sin da subito si scorge una forte tensione caratterizzata da non detti e sguardi evitati. La donna, ex attrice e ora illustratrice, invita a cena con lei e il marito il suo datore di lavoro, uno scrittore di libri per bambini. Lei, infatti, desidera che lui e il marito si incontrino, per porre fine ai sospetti che la tormentano, che riguardano la sessualità del marito stesso. Nella narrazione ambientata ai giorni nostri, invece, l’omosessualità dei protagonisti non è per nulla latente e frutto di una lenta rivelazione, ma palesemente caratterizzata e in uno dei due uomini si potrebbe dire esasperata. L’intreccio qui verte su una storia di infedeltà ed abbandono, di una coppia che si è lasciata per i continui tradimenti di uno dei due che non riesce a controllare i suoi impulsi nonostante dica di amare solamente l’altro.

Tuttavia le storie sono legate da una profonda e fitta rete di richiami e fili che tengono uniti i personaggi da un’epoca all’altra: i nomi dei protagonisti sono sempre gli stessi: Oliver (Maurizio Lombardi), lo scrittore per l’infanzia prima, l’uomo passionale ma infedele poi; Philip (Luca Zingaretti), colui che nega e ha paura della propria omosessualità nel 1958, l’amante tradito ma sicuro di ciò che vuole dall’amore e dalla coppia nel 2016 e Sylvia (Valeria Milillo), la donna estremamente sensibile e per questo condannata alla pazzia perché moglie di un uomo che l’ha sposata per negare la sua vera natura e poi ragazza intraprendente, innamorata, dispensatrice di consigli sull’amore agli amici.

Non solo i nomi, ma anche gli attori sono gli stessi: sorprendente la velocità a vestire i panni dell’una e dell’altra epoca (diversissimi) e meravigliosa prova di riuscire a passare da un carattere all’altro, in cui spicca con una interpretazione eccellente Lombardi che non sembra quasi nemmeno la stessa persona nell’interpretazione dei “due” Oliver. I personaggi sono però legati ancor più nel profondo, poiché nel passaggio storico-temporale essi mantengono, oltre al loro nome, le linee essenziali dei loro caratteri e nei loro drammi appare come se avessero subito un’evoluzione coerente alla loro personalità nel corso del tempo, come se in realtà fossero sempre gli stessi Oliver, Philip e Sylvia, solamente più consapevoli di se stessi oppure portati alle estreme conseguenze dal passare del tempo, come se non fossero poi due storie, due momenti, tre persone, completamente estranee.

Forse la chiave di lettura potrebbe essere proprio questa, ovvero il considerare il tempo come veritiera voce narrate. Il dramma dello svelarsi dei sentimenti quali parte integrante e irrinunciabile della natura dell’essere umana è letto in chiave del Tempo. L’amore omosessuale nel 1958 si carica di drammaticità nel momento in cui questo era visto con paura e sospetto dalla società e induceva le persone ad auto-negarsi e quindi auto-distruggere se stesse e le persone a loro care. L’epoca contemporanea mette in scena una critica quasi opposta: se prima era il dover nascondere e il timore di mostrarsi, oggi è l’eccesso di fiera di sé, quasi un carnevale di ostentazione, che scade nella superficialità di una lussuria sfrenata.

In entrambi i casi, comunque, ciò che si vuol mostrare è che non esiste un “tipo” di amore, esiste soltanto l’amore e voler in tutti i modi etichettarlo, con la condanna o con l’estrema diversificazione di sé in un finto e sofferto orgoglio da “gay pride”, è comunque sbagliato. Non a caso la figura di Sylvia risulta motore e perno di questa riflessione: la donna tra gli omosessuali, stagliata a ricordare che la ricerca di se stessi al di là della maschera sociale è propria dell’intimità di tutti e per tutti è sofferenza, perché tutti siamo assuefatti a un mondo di convenzioni.

I tre personaggi principali in una scena dello spettacolo (ambientazione 2016) fonte: http://www.criticateatrale.it/the-pride/
I tre personaggi principali in una scena dello spettacolo (ambientazione 2016) fonte: http://www.criticateatrale.it/the-pride/

Una nota di merito finale: innanzitutto alla scenografia, che è riuscita con pochi accorgimenti a rendere perfettamente le sfumature che incastravano i continui intrecci temporali. Bastava girare un carrello con la televisione e far scendere un pannello per capire che i tempi stavano cambiando. Il fondale con il giardino è il luogo del disvelamento finale, non cambia perché la natura è a-temporale.

E infine un plauso alla compagnia, tutta. La recitazione, mai affettata, tendeva al realismo della commedia borghese, senza indulgere in virtuosismi o eccessive estrosità da teatro “troppo” contemporaneo. Ogni gesto, tono, persino il lessico, rievocava l’uno e l’altro tempo, pur sempre nel carattere del “doppio” personaggio. Da ultimo menzione d’onore a Luca Zingaretti: il coraggio di un’opera «che tutti mi dicevano sei pazzo a fare! Quella roba lì no!» (da un commento fuori dal camerino, ndr) e di uno spettacolo che sa – finalmente – ancora compiere la vera magia del teatro: una catarsi.

Piccolo Teatro Strehler
dal 15 novembre al 4 dicembre 2016
The Pride
di Alexi Kaye Campbell, traduzione Monica Capuani
con Luca Zingaretti
e con Valeria Milillo, Maurizio Lombardi, Alex Cendron
scene André Benaim, luci Pasquale Mari
costumi Chiara Ferrantini, musiche Arturo Annecchino
regia Luca Zingaretti
produzione Zocotoco srl

 

Costanza Motta

Laureata triennale in Lettere (classiche), ora frequento un corso di laurea magistrale dal nome lungo e pretenzioso, riassumibile nel vecchio (e molto più fascinoso) "Lettere antiche".
Amo profondamente i libri, le storie, le favole e i miti. La mia più grande passione è il teatro ed infatti nella mia prossima vita sono sicura che mi dedicherò alla carriera da attrice. Per ora mi accontento di scrivere e comunicare in questo modo il mio desiderio di fare della fantasia e della bellezza da un lato, della cultura e della critica dall'altro, gli strumenti per cercare di costruire un'idea di mondo sempre migliore.

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