Tre storie, tre attori, grossomodo, che si ripropongono allo spettatore in tre situazioni differenti, verificatesi a dieci anni di distanza l’una dall’altra, nel 1991, nel 2011 e nel 2011: questo è Sole Alto, o Zvizdan, zenit, nella lingua originale, è un film croato-serbo-sloveno di Dalibor Matanic che ha ricevuto il premio della giuria al Festival di Cannes del 2015.
Sullo sfondo di tutti e tre gli episodi di Sole Alto vi è il conflitto serbo-croato: nel 1991, il conflitto jugoslavo sta per scoppiare, così come l’amore tra la serba Jelena (Tihana Lazovic) e il croato Ivan (Goran Markovic), che meditano insieme la fuga in città: uno schiaffo morale per le famiglie di entrambi. Al dramma della guerra, si contrappone il micro dramma famigliare, che vede Jelena impedita dal fratello nei suoi piani di fuga con l’amato, e quello degli effetti, terribili, della guerra sul quotidiano. Novelli Giulietta e Romeo, Jelena ed Ivan si amano di nascosto sulle rive del lago, sulle note della tromba che lui suona nella banda di paese, e rappresentano tutte le potenzialità, stroncate dal conflitto, che la gioventù porta con sé.
Dieci anni dopo, 2001: la giovane Natasa (sempre la Lazovic) e sua madre (Nives Ivankovic), si ritrovano rispettivamente orfana e vedova, oltre che prive del fratello-figlio, stroncato insieme al padre dalle atrocità del conflitto. Per le due donne è il momento di ricostruirsi una vita, senza però perdere d’occhio gli affetti che con assiduità vanno a trovare al cimitero, e ad aiutarle nella costruzione della nuova casa c’è il muratore croato Ante (di nuovo Markovic). Il dolore per il conflitto da poco terminato è la base per quello che il regista modula, per dirla con Pontiggia de Il fatto quotidiano, un «dramma da camera», in cui la giovane Natasa avviluppa la sua rabbia in un crescendo che culminerà in una scena erotica potentissima. La domanda che rimane aperta è: si può ricostruire una casa, ma che ne è della vita?
Dieci anni dopo ancora, nel 2011, la vita pare aver ripreso i suoi ritmi. Luka e Marija (sempre i soliti interpreti) si trovano a fare i conti con la terra natia e con la famiglia, e la propria e quella che ci si è costruiti. Lui, universitario, ritorna nel paese natale dove ritrova la compagna con cui aveva avuto un figlio: ancora una volta, strade che si sono divise e per diversa visione del futuro, e – forse, soprattutto per questo – per motivi etnici. Dopo una suggestiva sequenza di Luka ad un rave party, che stona, pur incastrandosi bene, con i toni e le scene del resto del film, la chiusa di Sole Alto è tutta in positivo e lascia aperta –letteralmente…– la porta alla speranza e ad un futuro migliore.
Attori e luoghi sono gli stessi, in una ciclicità voluta, che gioca sui dettagli – il muso di un cane, il passo felpato di un gatto – per creare scene sempre differenti. Il filo rosso che lega i tre episodi, oltre a quello ovviamente della guerra, è quello dell’indagine introspettiva, che non si schiera da una parte o dall’altra e non etichetta alcuni “buoni” e altri “cattivi”, ma semplicemente riflette e riconosce come la guerra – che pure non compare mai sullo schermo, se non tramite un unico colpo di pistola – abbia effetti devastanti sul singolo.
Certo, l’idea di un film balcanico potrebbe non allettare particolarmente i gusti del pubblico italiano, abituato alla leggerezza del cinema nostrano che, molto spesso, propone tematiche comiche e ridanciane, ma Sole Alto porta con sé un qualcosa a cui bisognerebbe nuovamente essere educati: la possibilità di riflettere.
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