Amante della letteratura (Arthur Rimbaud il suo poeta prediletto), del teatro e della filosofia, Pierre Niney, il più giovane attore mai entrato nella prestigiosa compagnia stabile della Comédie-Française, quest’anno è stato tra i protagonisti della recente 73. Mostra del Cinema di Venezia al fianco del cineasta francese François Ozon con il film in concorso Frantz (2016), tratto dalla pièce teatrale di Maurice Rostand L’Homme que j’ai tué (1934).
Nato a Boulogne-Billancourt il 13 marzo 1989, Pierre si dedica alla recitazione fin dall’età di 11 anni, supportato e incoraggiato dal padre, François Niney, filosofo, critico cinematografico e docente di estetica del cinema presso La Fémis – École nationale supérieure des métiers de l’image et du son presso l’Università Paris III – Sorbonne Nouvelle. Nel corso dei suoi studi in lettere con indirizzo teatrale frequenta Le Cours Florent e, in seguito, il Conservatoire national supérieur d’art dramatique di Parigi.
Nel 2010, è la stessa direttrice Muriel Mayette-Holtz a volerlo tra le file della Comédie-Française, il più importante teatro di Stato francese dotato di una compagnia permanente di attori, detta Troupe des Comédiens français, e dedicato a Molière, il suo più illustre rappresentante. Nonostante la giovanissima età (21 anni), Niney ottiene un grande successo distinguendosi in produzioni come Un fil à la patte di Georges Feydeau o Phèdre di Jean Racine.
Il mondo del cinema diventa per lui un’attrattiva sempre più irresistibile. Dopo le prime apparizioni in alcune serie televisive e cortometraggi, lo possiamo vedere nel fortunato LOL – Il tempo dell’amore (2008) di Lisa Azuelos, a fianco di Sophie Marceau. I primi ruoli da protagonista arrivano con J’aime regarder les filles (2011) di Frédéric Louf e Comme des frères (2012) di Hugo Gélin, che gli valgono le nomination come miglior promessa maschile ai César rispettivamente nel 2012 e nel 2013.
La consacrazione sul grande schermo si concretizza nel 2014, quando Niney veste i panni dello stilista-icona Yves Saint Laurent nell’omonima biografia diretta da Jalil Lespert. La somiglianza con il brillante genio della maison Dior è sorprendente, e la critica accoglie con entusiasmo la sua prova: è il più giovane in assoluto a vincere il Premio César come miglior attore.
In questi giorni con il film Frantz, diretto da Francois Ozon, Pierre Niney torna nelle sale nel ruolo di Adrien Rivoire, giovane e fragile soldato francese reduce dalla Prima Guerra Mondiale che, al termine del conflitto, parte per la Germania per visitare la tomba del coetaneo tedesco Frantz Hoffmeister (interpretato da Anton von Lucke) leva inesperta dell’esercito nemico.
L’incontro con la famiglia e con la promessa sposa di Frantz, Anna, una sorprendente Paula Beer, vincitrice del Premio Marcello Mastroianni come miglior attrice emergente a Venezia, stravolgerà la sua vita e il suo futuro. Adrien si rivela essere uno dei musicisti più importanti dell’orchestra dell’Opéra di Parigi, suona spesso il violino, racconta della sua amicizia con Frantz colmando quel vuoto che la morte del giovane aveva lasciato. Grazie a lui gli sconsolati coniugi Hoffmeister riescono finalmente a ritrovare un po’ di pace e conforto. La sensibilità e la dolcezza del ex soldato francese colpiscono anche Anna, che gli è sempre più legata e affezionata. L’apparente armonia famigliare nasconde però un tragico segreto che Adrien sente di dover confessare.
Come ha dichiarato lo stesso Niney, recitare in Frantz è stato tutt’altro che semplice: ha dovuto infatti imparare a suonare il violino, a ballare il Walzer e a parlare tedesco (lingua usata nella prima parte del film) grazie anche all’aiuto della collega Paula Beer.
Andando ad analizzare in maniera più dettagliata la nuova opera di Ozon, l’uso del bianco e nero è sicuramente una delle componenti fondamentali di questo lungometraggio. Questa scelta, infatti, non mira solamente a sottolineare la dimensione storica della vicenda, ma rappresenta anche (l’apparente) netto confine tra bene e male, suggerendoci, inoltre, la cupa dimensione in cui la “vedova” Anna si è rinchiusa dopo la morte del promesso sposo («ma io non voglio dimenticarlo!»). La presenza/assenza di Frantz è infatti una gabbia, un passato da cui sembra impossibile uscire, un imperituro ricordo che preclude ai protagonisti le porte di un futuro nuovo e diverso. Le rare scene in cui compare il colore sembrano accennare a una timida riscoperta di una segreta voglia di vivere, ma il dolore del passato è ormai inciso nella carne e nei cuori di chi ha sofferto la tragedia della guerra. Per Adrien e Anna sembra infatti impossibile vivere senza provare un infinito senso di colpa.
A partire dal titolo – Frantz, appunto – possiamo definire questo lungometraggio come il film dell’assenza, della mancanza e della disperata ricerca del perdono. Nonostante la storia sia ambientata a cinque anni dalla fine del conflitto, il fantasma della guerra e dei suoi morti perseguita ancora i vivi, precludendo loro qualsiasi possibilità di superare il lutto, di andare avanti. La responsabilità della vita diventa un peso insostenibile per chi è sopravvissuto, e la fragilità del giovane Adrien sembra proprio rimandare alle vibranti parole del poeta italiano Giuseppe Ungaretti, che meglio di chiunque altro ha saputo raccontare l’orrore e la disumanità della Prima Guerra Mondiale: «La morte si sconta vivendo» (dalla poesia Sono una creatura).
Anche la sequenza che più tardi racconta la penosa morte di Frantz richiama alla nostra mente le immortali parole di Veglia di Ungaretti:
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto lettere piene d’amoreNon sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
L’orrore della guerra sta proprio nel non detto, nella menzogna, nell’ambiguità e nella diffidenza verso il prossimo, verso ciò che è altro e straniero. Gli sguardi di sottecchi, le allusioni e l’odio reciproco tra tedeschi e francesi minacciano qualsiasi tentativo di costruire un nuovo futuro di pace e convivenza. Il silenzio è protagonista di una narrazione a tratti lenta, che lascia però spazio alla riflessione dei personaggi e dello spettatore. La guerra si rivela essere un gioco di specchi, di scambio di ruoli dove il conflitto tra due Paesi diventa parte integrante dei rapporti umani, entrando persino nella quotidianità e nell’intimità di una piccola città tedesca. Se inizialmente Adrien sarà ospite non gradito dai notabili del paese, anche Anna sperimenta lo stesso disagio quando si ritrova in visita a Parigi: «Siete tedesca?», «Cosa ci fate in Francia?»
Questa palpabile tensione di stampo nazionalista e revanscista pervade l’intero film e già prefigura lo spirito che porterà al successivo scoppio del regime nazista e della Seconda Guerra Mondiale.
Forse è solo attraverso l’arte e l’amore che l’uomo può riscoprirsi per quello che è veramente. La musica, la poesia e la pittura guidano i due protagonisti in un percorso conoscitivo e catartico che li porta alla rinascita e che annulla le differenze culturali, storiche e linguistiche (Adrien è francese ma conosce il tedesco, e Anna ama la poesia e la lingua francese) che inizialmente li incatenavano. Il suono del violino e del pianoforte, le parole di Chanson d’automne di Paul Verlaine e i capolavori del Louvre sono linfa vitale per chi è stato svuotato di tutto. La vicenda si sposta dal piccolo e chiuso paese della provincia tedesca alla cosmopolita Parigi: uno slancio di entusiasmo, una proiezione verso il futuro, una destinazione ideale per chi è giovane e ha voglia di ricominciare.