Jean-Paul Sartre (1905-1980), considerato uno dei maggiori rappresentanti del pensiero esistenzialista, è colui che ha dato una spinta decisiva alla considerazione dell’individuo come essere libero e responsabile delle sue decisioni. Lo scritto che incarna al meglio la prima fase dell’esistenzialismo di Sartre è senza alcun dubbio La Nausea, fase impregnata ancora di quel pessimismo e (spesso) nichilismo tipici di autori a lui antecedenti, come Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche.
Con questo “diario filosofico” Sartre compie un passo fondamentale per quel che riguarda il delinearsi del suo pensiero sui temi di maggiore importanza, quali la percezione della realtà, l’esistenza umana e in particolare quel che concerne la coscienza. Premettendo che La Nausea lascia più di una questione irrisolta, l’autore si riserva di definire completamente con il titolo stesso l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dell’esistenza, che riguarda i sensi e la consapevolezza di questi, intesi come mezzo per comprendere quanto ciò che ci circonda sia opprimente.
La via per ovviare a questa irreparabile insensatezza del mondo non è che la solitudine, inscindibile dalla libertà e unico antidoto a disposizione dell’uomo per evitare di restare paralizzato nella realtà. L’uomo è solo, pur facendo parte della società, ma gli è concesso (o forse egli vi è condannato) di decidere come agire, così da poter essere libero anche di non essere affatto libero; libertà questa, che però non è sinonimo della volontà di potenza di cui tratta Nietzsche. L’enigma che Sartre costruisce da sé incombe su tutta l’opera e trova la sua massima espressione in una frase situata verso la conclusione del diario, durante la quale vi è una riflessione a proposito dell’esistenza, non più vincolata all’essere umano, ma trattata come concetto universale: «Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione».
Una nascita senza ragione, non dettata dalla logica, non desiderata, che costringe l’uomo fin dal primo respiro a “protrarsi” accompagnato da quella squallida sensazione dolciastra e ammorbante che è la Nausea. Questa condizione psicofisica che “avvelena” l’uomo si riversa in un contesto molto più profondo che spinge l’esistenza umana a diventare addirittura “orrore di esistere”, dal momento che essa viene resa ancor più tragica dalla coscienza e dalla consapevolezza, come se l’uomo stesso accettasse passivamente di apporre una firma per auto-condannarsi a morte. Morte che viene affrontata come il culmine dell’assurdità, come fine di tutto in quanto fine della coscienza, considerata anche un evento dettato da una sfortunata combinazione di coincidenze che ci impedisce di tentare inutilmente di inseguire la nostra irrazionale volontà costringendoci ad annullare ogni progetto.
Sartre rappresenta una sorta di trasgressione, attraverso la quale anche i sentimenti più intensi vengono svalutati perché investiti dalla Nausea senza alcuna manifestazione di disperazione, ma piuttosto trattati con un’apatia tale da consumare anche la più forte delle speranze, condizione non troppo sconcertante, se pensiamo che l’esistenza viene affrontata dall’autore come qualcosa di non necessario. È proprio in questo che risiede il seme della Nausea:
«L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre […]. La contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare…ecco la Nausea».
Arianna Locatello