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Cover di Fallen Angels. Fonte: www.rollingstones.it

“Fallen Angels”, l’ultimo
capolavoro di Bob Dylan

4 minuti di lettura

Dopo Shadows in the night, il settantacinquenne Bob Dylan non sembra volersi fermare e con il nuovo Fallen Angels (uscito lo scorso maggio) rimette mano al celebre canzoniere americano: la scelta delle canzoni è più selettiva rispetto al lavoro precedente e questa volta Dylan non si è misurato esclusivamente con Frank Sinatra, ma anche con altri grandi della musica come Johnny Mercer, Carolyne Leigh, Harold Arlen e Sammy Cahn. La band che accompagna il cantautore è sempre la stessa – composta dai chitarristi Charlie Sexton, Stu Kimball, Donnie Herron e Dean Peaks, il bassista Tony Garnier e il batterista George Recile – così come gli studi di registrazione, ovvero i Capital Studios di Hollywood.

Dylan sceglie di interpretare così alcune canzoni dimenticate e le svela in tutto il loro vero splendore: il filo conduttore del disco è infatti il dittico rappresentato da parole e musica, esprimendo così il suo amore e la sua dedizione per questo mondo e affermando l’autonomia delle canzoni, del tutto slegate dal loro compositore. Secondo il cantautore definire i suoi brani con il termine cover, dunque, è errato, perché non vi è alcuna intenzione di “coprirli” con la sua personalità, ma piuttosto di farli riaffiorare nella loro autenticità, immedesimandosi interamente nel loro significato: «Se non credi a quello che dice una canzone, se non l’hai vissuto, non ha molto senso interpretarla».

Cover di Fallen Angels. Fonte: www.rollingstones.it
Cover di Fallen Angels. Fonte: www.rollingstones.it

In Fallen angels riemerge l’altro lato della musica americana, un mondo molto diverso dal folk o dal rock tipici di Dylan, tra jazz, rockabilly e shuffle. Il disco si apre con Young at heart, di Johnny Richards e Carolyne Leigh, in cui Dylan dimostra la sua magistrale bravura con la chitarra. Di Frank Sinatra, invece, il cantautore ha scelto Melancholy Mood (di Walter Shumann e di Vick R. Night), il brano che più di tutti si carica della malinconia struggente, grazie anche al suo jazz sporco, e All the way (di Van Heusen e Sammy Cah), che sono interpretati così egregiamente da essere il momento migliore del disco. Sempre di Sinatra compare anche Come rain or come shine, che era stata interpretata insieme a Ella Fitzgerald, Eric Clapton e B. B. King.

«When somebody loves you
it’d no good unless he loves you – all the way
happy to be near you
when you need someone to cheer you – all the way
taller than the tallest tree is.
When somebody needs you
it’s no good unless he needs you – all the way
through the good or lean years
and for all the in between years – come what may
who knows where the roads will lead us?
Only a fool would say
but if you’ll let me love you
it’s for sure I’m gonna love you – all the way, all the way».

    All the way

«I’m gonna love you like nobody’s loved you
come rain or come shine
high as a mountain and deep as a river
come rain or come shine.
I guess when you met me
it was just one of those things
but don’t ever bet me
‘cause I’m gon’be true if you let me.
You’re gonna love me like nobody’s loved me
come rain or come shine
happy together, unhappy together
and won’t that be fine?»

   Come rain or come shine


Vi è poi The black old magic, che era stata incisa nel 1942 da Glenn Miller e successivamente cantata da Marilyn Monroe nel film Bus stop, che non perde il suo carattere decisamente swing (1958):

«That old black magic has weaved its spell
that old black magic that you weave so well
those icy fingers up and down my spine
same old witchcraft when your eyes meets mine.
Same old tingle that I feel inside
and then the elevator starts its ride
and down and down I go, round and round I go
like a leaf caught in the tide.
I should stay away but what can I do?
I hear your name and I’m aflame
aflame with burning desire
that only your kiss can put out the fire»

I contorni di fiati ed archi, invece, regalano un’atmosfera romantica a canzoni come Maybe You’ll be there (di Rube Bloom e Sammy Gallop), una delle più semplici e autentiche dichiarazioni d’amore, e  la scanzonata Skylark (di Hoagy Carmichael e Johnny Mercer):

«Skylark
Have you anything to say to me?
Won’t you tell me where my love can be?
Is this a meadow in the mist
Where someone’s waiting to be kissed?
Oh skylark
Have you seen a valley green with spring?»

   Skylark

Gennaio 1965, Greenwich Village, Manhattan. daysofthecrazy-wild.com
Gennaio 1965, Greenwich Village, Manhattan. Fonte: daysofthecrazy-wild.com

«Each time I see a crowd of people
just like a fool I stop and stare
it’s really not the proper thing to do
but maybe you’ll be there
I go out walking after midnight
along the lonely thoroughfare
it’s not the time or the place
to look for you
but maybe you’ll be there
you said your arms would always hold me
you said your lips were mine alone to kiss
Now after all the things you told me
how can it end a thing like this
someday if all my prayers are answered
I’ll hear a footstep on the stair
with anxious heart
I’ll harry to the door
and maybe
you’ll be there»

Maybe you’ll be there

Con canzoni come Neverthless (di Harry Ruby e Bert Kalmar), All or nothing (di Arthur Altman e Jack Lawrence) e On a little Street in Singapore (di Peter DeRose e Billy Hil), l’artista dimostra il suo intento di adattare le canzoni secondo un arrangiamento più solare rispetto alle atmosfere più notturne o grottesche del disco precedente, raggiungendo toni piuttosto esotici soprattutto con On a little Street in Singapore.

Con il suo ultimo lavoro, dunque, Bob Dylan non fa che riconfermare la sua professionalità e la sua dedizione per i classici americani, regalando ancora una volta un album che fa tornare gli ascoltatori indietro nel tempo, permettendo loro di riscoprire indimenticabili pietre miliari della musica americana.

Nicole Erbetti

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Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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