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Giuseppe Agnello: l’Uomo, il Tempo, la Memoria

Il raffinato scultore siciliano Giuseppe Agnello ci mostra il suo inquieto e delicato legame che intercorre tra lui e la sua terra, grazie alle sue opere.

6 minuti di lettura

«Dimenticare Palermo», così recita un noto film di Francesco Rosi, il quale non fa che cogliere in negativo il vero sentimento di ogni siciliano: la difficoltà di dimenticare una città, che in definitiva è l’immagine plastica di un’intera regione.
Dunque dimenticare la Sicilia: impossibile, urge tornare, anche qualora ciò significasse rilevare dolorosamente un default sociale, etico-morale, talvolta emotivo-esistenziale. Gli effetti di un transito repentino da un’ era contadina ad una del consumismo sfrenato, la trasformazione del contesto ambientale ad opera di dissennati «sacchi edilizi», l’omologazione postmoderna, hanno, infatti, reso inconciliabile il ricordo di ciò che si è stati con quello che è il presente; un presente patinato, ma che nella sostanza non ha cambiato nulla, non ci ha resi migliori.

Non si tratta tanto di nostalgia, ma è la presa di coscienza di un fallimento generazionale. La mia generazione ha politicamente fallito perchè non è riuscita a realizzare il cambiamento, il sogno che ha coltivato nell’adolescenza.

Questa la disamina di Giuseppe Agnello, artista inquieto e critico nei confronti di una realtà di cui percepisce dissestato, oggi, il delicato legame che intercorre tra l’uomo e la sua terra.

foto_Giuseppe_Agnello

Giuseppe Agnello, nato nel 1962 a Racalmuto, è scultore raffinato nella misura in cui a sostegno della sua arte concorre una sensibilità penetrante ed una poetica solida (rara di questi tempi). Tiene insieme il tutto in un’espressione formale che non ferisce mortalmente, non soffre di cinismi, ma parla la schietta e armoniosa voce della natura, nella sua ciclicità, in una sintesi estetica che lambisce equamente la Vita e la Morte.

Maestro Giuseppe Agnello, lei da scultore in Sicilia si è sentito favorito e supportato nella sua arte?

Come scultore sono partito dalla Sicilia, la mia prima formazione è avvenuta qui, poi sono uscito fuori, e poi sono tornato per un senso di mancanza. Esiste come un rapporto di amore ed odio nei confronti di questa terra, per cui nel momento in cui ci vivi la detesti, invece nel momento in cui sei fuori desideri viverci. In generale sento di dire che sono riuscito a realizzarmi in Sicilia come scultore, però bisogna capire che si tratta pur sempre di un’isola; per quanto supportati si possa essere è pur sempre una realtà regionale. Dunque ad un giovane scultore consiglierei di partire via; anche se è difficile, perché esiste un legame con la terra d’origine che è difficile da recidere. Credo che, come diceva il mio compaesano Sciascia, ognuno dovrebbe vivere nel luogo in cui è nato, ma questo a patto che ci siano condizioni civili, avere un lavoro ad esempio. Quindi capisco un giovane che oggi si vede costretto ad andar via, e tagliare il cordone ombelicale. Non è facile, perché ovunque vada vivrà sempre come moncato di qualcosa.

 Lei qui sopra ha citato Leonardo Sciascia, suo illustre concittadino, rendendo inevitabile la nostra curiosità e domanda: che tipo di rapporto l’ha legata a questo intellettuale, questo siciliano eretico?

Ho conosciuto Sciascia quando ero giovanissimo. Ero ancora studente all’Accademia di Palermo, al corso di scultura. Un giorno d’estate vidi arrivare a casa mia Leonardo Sciascia con degli amici che gli avevano parlato del mio lavoro. Io già lo conoscevo attraverso i suoi libri, ma non avevo mai avuto occasione di incontrarlo personalmente. Fu un incontro importantissimo perché subito dopo il circolo di cultura di Racalmuto mi organizzò la prima personale presentata proprio dallo scrittore Sciascia. All’epoca avevo ventuno anni.

 

Per chi non lo sapesse lei è l’autore della famosa statua del commissario Montalbano posta nella piazza centrale di Porto Empedocle. Come è nato questo lavoro?

Inizialmente c’è stato un bando di idee pubblicato dal Comune di Porto Empedocle, al quale io ho partecipato con una proposta che è stata molto apprezzata. Avevo proposto quest’uomo appoggiato ad un lampione che era in sintonia con un’altra scultura che avevo realizzato a Racalmuto, dedicata a Leonardo Sciascia. Successivamente ho avuto un contatto con Andrea Camilleri, il creatore del personaggio in questione, il quale mi ha dato tutte le indicazioni dal punto di vista somatico. Alla fine del lavoro sono seguiti ulteriori scambi e confronti con lo scrittore, molto costruttivi.

 Oggi lei è uno dei pochi rappresentanti italiani, se non del mondo, di una tradizione scultorea incentrata sulla figura umana. Tra il rifiuto dei materiali tradizionali, l’anti-monumentalità, il concettualismo, l’ironia e la provocatorietà cara a tanta scultura contemporanea, insomma tra i vari Maurizio Cattelan, Gunther Von Hagens, Donald Judd, lei pensa che siamo giunti all’esaurimento della scultura, alla sua morte?

Giuseppe Agnello, "Il risveglio"
Giuseppe Agnello, “Il risveglio”

La cosa più importante è quello che l’artista racconta a prescindere dal linguaggio e a prescindere che si utilizzino strumenti informali, concettuali o figurativi. Esiste una figurazione che è orribile, senza vita, cimiteriale, come esiste anche un informale masticato e stereotipato. L’essere contemporaneo di un’opera non si gioca su valutazioni formali o di linguaggio. E’ importante solo quello che si racconta. In generale poi io non credo nella morte dell’arte: la pittura, la scultura sono discipline che non moriranno mai; oggi ci sono semplicemente più strumenti, più linguaggi, quindi l’uomo ha più possibilità di scelta, ma l’una non esclude l’altra.

 

Da quali tematiche muove la sua opera?

Tutta la mia opera dalla nascita fino a oggi, nonostante il linguaggio si sia evoluto e cambiato, penso che racconti sempre la stessa cosa. Penso che le mie opere raccontino questo aspetto legato alla morte, alla distruzione, al disfacimento, simbolicamente quindi alla cenere, come se tutto ciò che ci circonda fosse stato bruciato, consumato, incenerito. Poi c’è anche il momento della rinascita: a tutto ciò che muore segue sempre il momento della rigenerazione, che io rappresento per mezzo di questi boccioli di fiori che si dipartono dai corpi e dalle teste delle mie sculture. C’è questo aspetto per cui l’uomo cade, tocca il fondo e dopo cerca di rialzarsi in qualche modo. Alcuni mi indicano come un pessimista, ma io non mi sento tale, in fondo c’è nelle mie opere tanto amore per la vita e il fatto che la si denunci è perchè si avverte un sentimento di mancanza di essa. Se io, ad esempio, denuncio l’incuranza dell’uomo nei confronti del suo ambiente è perché vorrei che le cose fossero diverse. Io non sostengo una visione mortuaria del mondo, non sono un catastrofista come forse leggermente si è indotti a pensare, il mio è sempre stato un atto d’amore e di vita nei confronti della Sicilia

 

Oltre ad essere portatrici di una concezione esistenziale dell’uomo come nodo di problematicità, le sue opere sono forse anche un invito a rivedere il rapporto con la natura e con la terra?

“Certamente per me è importantissimo il rapporto con la natura, con il contesto in cui si vive, che poi è il luogo dell’identità. Io ho vissuto molto all’estero, e devo dire che ritornando in Sicilia si avverte questo divario tra uomo e natura sempre più aperto. Il ritorno rende più visibile tutto: le strade colme di rifiuti; il disastro urbanistico, che lede la bellezza del territorio; senti che tutto è in stato di abbandono e vivere in un contesto del genere ti fa sentire in qualche modo abbandonato a tua volta. Ti senti tradito, non ti riconosci più nel tuo luogo natio. Vedi, l’aspetto identitario per me è molto importante. Se vivi in un certo contesto senti un’energia particolare che ti lega, tuo malgrado, alla tua terra. Essere siciliano significa aver vissuto le stragi di mafia degli anni novanta; queste sono cose che ti segnano, che vanno a costituire un tuo bagaglio esperienziale da cui non puoi più prescindere, e che, pur nella tragicità, ti dà un’energia per urlare alcuni valori, alcune necessità di umanità e di civiltà. E quando vai via tutto ciò non svanisce, vivi in un altro contesto, magari positivistico, ma che non è il luogo dove ti sei formato e quindi metà di te l’hai lasciata nella tua terra. Ecco che c’è sempre il bisogno di tornare per chi va via, e così è stato per me. Ecco, la mia opera nasce anche da tutto questo.

Lei parlava di Identità, smarrita a suo dire, è forse in tal senso che si spiega la pervasività delle radici nelle sue opere? Che valore ha per lei questo elemento?

Ho realizzato diverse sculture che affrontano un po’ il tema dell’emigrazione e quindi dello sradicamento di questa gente; ma in realtà queste opere parlano anche di noi. Ci sentiamo anche noi, che viviamo in questo luogo, in un certo senso sradicati, perché abbiamo perso il senso di appartenenza: siamo tutti un po’ dei migranti. Questo perché il luogo in cui viviamo non ci appartiene più, non ci sono elementi identitari che lo distinguono da mille altri luoghi del mondo. Le radici secondo la mia visione sono in fondo memorie, sono i fili di tutto ciò che abbiamo vissuto. Noi viviamo di memorie, senza di esse non siamo niente. Perciò queste metamorfosi, queste trasformazioni in radici delle parti superiori dei miei corpi; simbolo che la nostra testa non è che un groviglio di memorie. E’ come se il presente che viviamo fosse meno presente rispetto a tutto ciò che è stato il nostro passato.

Giuseppe Agnello, "Il sonno"
Giuseppe Agnello, “Il sonno”

 

Di Giuseppe Agnello è attualmente in corso la mostra personale Memorie: vedute laterali e oblique a cura di Lorenzo Rosso, con testo critico di Giulia Ingarao.
La Mostra sarà in permanenza sino al 30 Dicembre 2014. Torre Carlo V, Città di Porto Empedocle (Ag).

di Maria Guzzo

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