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Milano, Brera.
Foto da Flickr

Milano che non conosciamo: nella Brera delle case chiuse

9 minuti di lettura

Milano è la città della moda e del design, ma tra le sue vie si nasconde un lato proibito che non tutti conoscono. Con un po’ di immaginazione, è possibile riscoprire la Brera del passato, fatta di case chiuse e incontri segreti. Brera è un quartiere di Milano noto per le sue bellezze artistiche, ed è possibile visitarlo seguendo un itinerario davvero fuori dal comune: quello delle case chiuse, abolite nel 1958 con la legge Merlin. Se Brera è oggi un quartiere di alto livello, di glamour e affitti insostenibili, nei secoli scorsi era invece una zona popolare costellata da numerosi locali a luci rosse, per tutte le classi e le età. Per capire come funzionassero questi luoghi di incontro, dobbiamo prima ripercorrere brevemente la storia di Milano e delle sue donne.

Le case chiuse come luoghi di istruzione sessuale

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Risale al 1387 la prima documentazione in cui si parla di prostituzione a Milano, quando il duca Gian Galeazzo Visconti, disturbato dalla massiccia presenza di bordelli, emanò un decreto per limitare la zona a luci rosse al Castelletto, ovvero quella che è oggi piazza Cesare Beccaria. Secondo la sua legge, le prostitute dovevano essere regolarmente autorizzate, dovevano pagare una tassa ed erano obbligate a distinguersi dalle signore “per bene” indossando delle specifiche mantelline.

Il Castelletto si trova però vicino al Duomo, nei pressi peraltro del palazzo dell’Arcivescovo, così, qualche secolo più tardi, Carlo Borromeo decise di trasformare i locali in prigioni o in alcuni casi di abbatterli proprio per il fatto che la zona a luci rosse distraeva i fedeli che dovevano andare a messa. Va sottolineato che la prostituzione non venne vietata, ma limitata ad alcuni particolari contesti. Si trattava infatti di un fenomeno in parte culturale: per gli uomini, e soprattutto per i ragazzi che dovevano diventare adulti, era normale e legittimo frequentare i bordelli, luoghi di istruzione sessuale e crescita. Diverso era ovviamente l’atteggiamento nei confronti delle donne, considerate poco di buono e spesso marchiate a vita dalla loro attività. Da questo punto di vista, i ricchi signori di Milano dimostrarono un grande interesse per i problemi sociali, tanto che vennero aperti due istituti con lo scopo di aiutare le ragazze cadute in cattive mani: il Collegio della Guastalla per fanciulle sole e decadute (1555) e la Scuola Madama del Soccorso, voluta da Isabella de Cordova per aiutare «le peccatrici, le malmaritate e le vergini pericolanti», che imparavano qui un mestiere in modo tale da poter ricominciare a vivere dignitosamente, il concetto di prostituzione è infatti cambiato nel corso dei secoli.

Sì alla prostituzione ma lontano da occhi perbene

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Prostituta non lo si era quasi mai per scelta, ma per necessità. Eppure, l’approccio passato sembra più aperto di quello contemporaneo: la prostituzione non venne mai bandita, ma più semplicemente tutelata. Nel 1859 Camillo Benso, conte di Cavour, varò una legge per creare una serie di case chiuse gestite dallo Stato Italiano, che si impegnava a curarne l’aspetto igienico e sanitario. Con l’Unità d’Italia, la legge venne estesa alla nazione intera: alle regole per la tutela delle prostitute, si accostarono leggi per evitare che la morale della città fosse contaminata dalla visione di queste donne. I bordelli erano ammessi, ma lontani da chiese e scuole, oltre a dover tenere le persiane rigorosamente chiuse.

Nel 1888, con la legge Crispi, si decise che le case dovevano essere murate, eccetto ovviamente l’ingresso principale, così da non poter vedere cosa accadesse al loro interno. Deriva proprio da qui il termine case chiuse. Se in Francia e in Inghilterra i luoghi di incontro vennero eliminati già dalla fine dell’Ottocento, in Italia anche la prima metà del Novecento vide un fiorire di lupanari frequentati da uomini di ogni classe sociale. Anche il fascismo, pur esaltando l’ideale della famiglia, non rinunciò ai piaceri della carne: le prostitute erano schedate per cognome, mentre le “ausiliarie dell’amore” venivano inviate nelle colonie per intrattenere i soldati, conquistando anche alcuni riconoscimenti per i loro servigi allo Stato.

Si trattava effettivamente di un giro d’affari non indifferente: agli inizi del Novecento il proprietario di una casa guadagnava mediamente 100/200 mila lire al giorno. Per aumentare questi ricavi, vennero pensate anche nuove strategie di mercato, come le “quindicine”: questo astuto sistema fu collaudato da Cesare Albino Bianchi, cremonese proprietario di numerosi bordelli a Milano. Ogni quindici giorni la casa chiusa cambiava le prostitute disponibili, puntando soprattutto su donne straniere (francesi, messicane, cubane, africane), in modo da poter sempre sorprendere i propri clienti con un nuovo ventaglio di scelte. Per le donne però si trattava di un problema non indifferente dato che erano costrette a cambiare lavoro ogni quindici giorni, vagando da una casa all’altra.

Brera: la musa degli artisti

Nel 1958, con la legge Merlin, i bordelli italiani ebbero l’obbligo di chiudere entro sei mesi e le reazioni furono diverse: Lina Merlin ricevette lettere di approvazione e ringraziamenti, ma anche numerose critiche per aver rotto un giro d’affari di ben 140 miliardi l’anno, lasciando molte donne senza lavoro. Il parere della Merlin era però molto chiaro: lo Stato non avrebbe dovuto guadagnare sfruttando delle schiave del sesso. Si può essere favorevoli o contrari alle reintroduzione delle case chiuse, così da regolamentare e tutelare questa professione, ma indubbiamente la lotta della senatrice fu molto coraggiosa per i tempi e aveva nobili intenti.

Dov’erano quindi le molteplici case chiuse della Milano tra Ottocento e Novecento? Pur essendo sparse per tutta la città, Brera era la zona a luci rosse per eccellenza. Oggi ovviamente gli edifici, pur rimasti gli stessi, ospitano attività molto diverse, come negozi, ristoranti, caffè. Il nostro tour parte proprio da una caffetteria, il Bar Jamaica, in via Brera, che seppur non legato in modo diretto alla prostituzione, era il covo di artisti e intellettuali che si fermavano qui per usare il telefono – fu il primo ad averlo a Milano – e bere un buon caffè. Sono infatti gli artisti coloro che più hanno elogiato e ricordato le prostitute milanesi. Possiamo citare il film Adua e le compagne (1960) di Antonio Pietrangeli, il romanzo Un amore (1963) di Dino Buzzati, o ancora Addio Wanda (1956), il libello di Indro Montanelli contro la Legge Merlin che così recitava «In Italia un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l’intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli: la Fede cattolica, La Patria e la Famiglia.

La famiglia all’italiana funziona solo finché le figlie sono vergini, le lenzuola sono (in genere) pulite solo perché i maschi possono sporcare quelle dei bordelli e con la famiglia andrebbe a gambe all’aria la Fede, per la semplice ragione che non c’è Dio senza Diavolo e la prostituzione è il migliore di tutti i diavoli. E poi la Patria, l’Italia si era fatta lì, nelle case delle Wande, anticamere di ogni eroismo, nell’accogliente affetto di quelle “pensioni” peripatetiche che seguivano gli eserciti nelle avanzate e nelle ritirate, sempre pronte a offrire una consumazione gratis al ferito, al decorato, al reduce stanco. Un invisibile ma infrangibile cordone ombelicale legava per sempre Wanda al concetto stesso di Patria».

I vicoli del piacere: le case chiuse a Brera

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Dal Bar Jamaica, girando a sinistra in via Fiori Chiari, al numero 17 possiamo incontrare la prima casa chiusa: Fior Ciar 17, il bordello di più alta classe della Milano di un tempo, ormai non più accessibile al pubblico, era una delle case più lussuose e conosciute. Nell’atrio si poteva ammirare una scalinata in stile liberty, mentre le stanze da letto, complete di lavandino, bidet, saponi, acqua di colonia e asciugamani di lino (con pagamenti extra), erano situate al primo piano. Come già detto, le persiane dovevano rimanere rigorosamente chiuse: si dice infatti che la presenza delle donne disturbasse i dipendenti che lavoravano nel palazzo di fronte.

Il giorno prima della chiusura definitiva delle case chiuse a seguito della legge Merlin, al Fior Ciar si consumò una grande festa lunga tutta la notte, così da salutare con malinconia una delle istituzioni più care ai milanesi. È proprio in questo bordello che lavorava la nota maitresse Wanda, la donna a cui si riferisce appunto Indro Montanelli. I nomi d’arte per le prostitute erano molto comuni e spesso molto fantasiosi: si passava da Saffo, Clio, Violetta, Lola, a nomi più esotici e ammiccanti. Le signore venivano comunque registrate in commissariato anche con il loro nome di battesimo, sottolineando la professione prostituta sul passaporto. Oltre a pagare 200 lire di tasse annuali, si perdeva il diritto di voto.

Percorrendo via Fiori Chiari, sulla sinistra, possiamo vedere via Formentini, anche in questo caso una delle più frequentate dagli uomini, tanto da guadagnarsi l’appellativo di Contrada di Tett (poi storpiata in Contrada dei… tetti). Alla fine di via Fiori Chiari, si svolta a sinistra su via Mercato, per poi girare subito a destra in via Carpofaro, una delle più popolate dal punto di vista della prostituzione. È interessante notare come ogni attività avesse delle regole precise che le ragazze dovevano rispettare. Per esempio, al numero 3 si trovava una casa chiusa in cui era vietato attirare i clienti, invece al numero 5 della stessa via, le donne ballavano e si mostravano disinibite in costume, con delle gonne aperte sul davanti per far vedere le gambe. I vestiti dovevano essere vistosi e provocanti, ma anche facili da togliere. Sempre in via Carpoforo, al numero 8, lavorava la celebre Augustina. Qui i clienti venivano fermati per la strada ed erano quasi forzati a entrare dalla “madre” che gestiva l’attività, e dalle sue bellissime figlie friulane. Ogni casa puntava quindi a un pubblico diverso: i ragazzini erano facilmente adescati dalle ballerine provocanti del numero 5, mentre gli uomini più sicuri di sé preferivano le timide e sottomesse donne del numero 3.

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Prima di tutto, ogni donna veniva pagata con marchette, dei gettoni con cui era poi possibile riscuotere i soldi dalla padrona. Nel XIX secolo Cavour decise anche delle nuove tariffe: il cliente pagava cinque lire nelle case di prima categoria, tra le cinque e le due lire in quelle di seconda e sotto le due lire in quelle di terza categoria. La legge fu modificata qualche anno dopo specificando che il cliente che sforava i venti minuti doveva pagare un sovrapprezzo. Questi guadagni però raramente arricchivano le donne, i soldi infatti venivano investiti nei modi più svariati, per esempio in trucchi e abiti, mentre una quota non indifferente andava al mantenimento dei figli, spesso inevitabili se si conta che alcune prostitute incontravano decine e decine di clienti al giorno. Tra le spese maggiori c’erano le medicine: la sifilide era una malattia piuttosto comune e per curarla servivano iniezioni molto costose, ma di dubbia efficacia. Nel 1891 il marchese di Rudinì rese obbligatorio il controllo sanitario periodico, così da tutelare prostitute e clienti: una volta al mese i carabinieri portavano le donne in ospedale, altre volte era il medico a passare per dei controlli.

Giungendo all’incrocio e proseguendo a destra per via Madonnina, si narra che al numero 23 le donne fossero solite calare un cestino vuoto dalla finestra per indicare agli uomini che non erano occupate. Si trattava di un astuto stratagemma per attirare un numero maggiore di clienti, senza però dare troppo nell’occhio.

Qui finiscono le vie della prostituzione legate a Brera, ma Milano offriva moltissimi altri quartieri a tema, come il Verziere, fermata Missori, nei pressi dell’Università Statale di Milano, ricordato da Carlo Porta nella poesia La Ninetta del Verziere (1814), una prostituta che racconta a un cliente la sua storia. E ancora, nella stessa zona, il Bottonuto, vicino a piazza Santo Stefano, in fondo a via Larga. Non possiamo poi non citare piazza Vetra, detta la Colonnetta – qui si trovava la Colonna infame di Manzoni – dove lavorava la celebre Rosetta della Vetra, in arte Rosetta di Woltery, una cantante che ottenne scarso successo e si ritrovò quindi a lavorare nelle osterie più popolari. A Porta Ticinese c’era invece la Calusca, dietro la chiesa di Sant’Eustorgio, dove le ragazze erano chiamate sparagnadolitt perché erano solite mangiare ciliegie e sputare per strada i semi.

Anche le case chiuse di alto bordo erano in ogni parte di Milano: una era per esempio in via Disciplini, formata da dei salottini privati, e un’altra in via San Pietro all’Orto, vicino alla chiesa di San Carlo, unica per la disposizione di alcuni specchi sui soffitti. In piazza San Giuseppe c’era invece il Casino dei Nobili, un salotto dall’architettura raffinata dove, tra un incontro e l’altro, si ascoltava musica sacra. In via San Paolo avremmo potuto trovare invece La Società del Giardino, un luogo estremamente riservato in cui si giungeva in camera passando per dei cunicoli, frequentati da artisti come Francesco Hayez, Stendhal, Carlo Porta e Giandomenico Romagnosi.

Le case chiuse di Brera hanno quindi fatto la storia di Milano e dei suoi artisti. Se oggi il percorso appare meno suggestivo di cent’anni fa, usando la fantasia si può immaginare una città dalle finestre serrate e le porte socchiuse, vicoli stretti e incontri proibiti. Una Milano lontana dalla moralità odierna, ma che vale la pena esplorare insieme agli itinerari più noti per fare un tuffo nel passato, anche quello che di solito non ci viene raccontato.

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