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Guido Gozzano a cent’anni dalla morte: la «vergogna» di essere poeta

11 minuti di lettura

Guido Gozzano, il poeta che si sentiva già vecchio a venticinque anni – si veda l’inizio dei Colloqui: «Venticinqu’anni!… sono vecchio, sono / vecchio! Passò la giovinezza prima,/ il dono mi lasciò dell’abbandono! » – morì di tubercolosi a soli trentadue, il 9 agosto 1916.

Di famiglia benestante, nacque a Torino il 19 dicembre 1883: non fu affatto uno studente modello, tanto da essere bocciato per due volte al Liceo Classico e da ottenere la maturità soltanto a vent’anni, nel 1903. Si iscrisse poi alla Facoltà di Giurisprudenza di Torino, ma frequentò con maggiore interesse le lezioni di letteratura italiana di Arturo Graf. Nel 1906 uscì la sua prima raccolta poetica, La via del rifugio, che riscosse reazioni contrastanti da parte della critica; l’anno dopo gli venne diagnosticata una lesione polmonare, a causa della quale si resero necessari viaggi e soggiorni in climi più caldi, soprattutto in Liguria. Nel 1911 pubblicò la sua seconda raccolta, I colloqui. Nel 1912 Guido Gozzano intraprese, sempre per motivi di salute, un viaggio in India (la raccolta delle sue lettere dall’India esce postuma nel 1917 col titolo Verso la cuna del mondo).

In tutta la sua breve vita manifestò grande interesse per l’entomologia (le farfalle, in particolare), per la narrativa per l’infanzia (collaborò col Corriere dei Piccoli) e per la nascente cinematografia (lavorò alla sceneggiatura di un film su Francesco d’Assisi, mai portato a termine, e a un documentario sulla vita delle farfalle).

Resta per noi l’autore di pochi, straordinari versi: riaccostarsi oggi ad essi in occasione del centenario della sua morte è un’esperienza gradevole e importante, che va fatta, però, tenendo ben presente la durata tragicamente breve di quell’esistenza (e di quell’esperienza poetica), oggi che la speranza di vita si è di molto allungata.

La consapevolezza  di una malattia che allora non lasciava scampo – solo in tempi relativamente vicini a noi, vale a dire dal 1946, con la scoperta della streptomicina è stato possibile debellarla – percorre tutta la sua produzione: particolare che lo apparenta ad altri autori coevi (a Sergio Corazzini, ad esempio, che morirà del medesimo morbo a soli ventuno anni) e che è imprescindibile per la comprensione della sua poetica.

Con dolceamara ironia Gozzano compie molte variazioni su questo leit-motiv: in una della sue poesie più celebri, La Signorina Felicita ovvero la Felicità (pubblicata nel 1909), egli si fa definire dalla protagonista femminile «malato immaginario», salvo poi alludere un po’ sinistramente alla necessità di intraprendere un viaggio «per fuggire altro viaggio» (cioè di doversi trasferire in un clima più mite per evitare il viaggio peggiore, quello della morte). In un’altra lirica, originalissima e che meriterebbe certamente una maggiore conoscenza, Alle soglie (1911), trasfigura poeticamente la visita che gli fanno i dottori che lo auscultano in petto e gli impongono  uno stile di vita più ordinato, di smettere di fumare e di soggiornare in Riviera: «Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne… / non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:/ Nervi… Rapallo… San Remo…cacciare la malinconia;/ e se permette faremo qualche radioscopia».

Ma il presentimento della morte è dominante, nonostante il “paziente” ne parli con depistante leggerezza: «Mio cuore dubito forte – ma per te solo m’accora – / che venga quella Signora dall’uom detta la Morte […] E’ una Signora vestita di nulla e che non ha forma. Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma».

Solo trentadue anni di vita, trascorsa con struggente intensità, dolce disperazione e raffinata ironia. Ingredienti che fanno della poesia di Gozzano un unicum nel nostro panorama letterario. Non gli si rende giustizia mettendone in risalto solo l’antidannunzianesimo o l’affettazione di molti atteggiamenti: è un autore più ricco e complesso di quanto possa sembrare in base alla lettura antologica dei soliti testi proposti a scuola.

Cerchiamo allora di andare alla ricerca di altri versi, meno noti ma forse più significativi.

Cominciamo da una lirica incompiuta. Molti grandi autori hanno le loro “incompiute”: nella musica per Franz Schubert  è la Sinfonia n.8 e per Giacomo Puccini la Turandot. Così è anche per Gozzano con la sua Nell’abazia di san Giuliano, scritta durante i suoi soggiorni liguri.

L’abbazia  in questione si trova nel quartiere di Albaro a Genova, adiacente a Corso Italia, risale al XIII secolo ed è un luogo che il poeta amava frequentare.

Buon Dio nel quale non credo, buon Dio che non esisti,
(non sono gli oggetti mai visti più cari di quelli che vedo?)

Io t’amo! Ché non c’è bisogno di creder in te per amarti
(e forse che credo nell’arti? E forse che credo nel sogno?)

Io t’amo, Purissima Fonte che non esisti, e t’anelo!
(Esiste l’azzurro del cielo? Esiste il profilo del monte?)

M’accolga l’antica Abazia; è ricca di luci e di suoni.
Mi piacciono i frati; son buoni pel cuore in malinconia.

Son buoni. “Non credi? Che importa? Riposati un poco sui banchi.
Su, entra, su, varca la porta. Si accettano tutti gli stanchi.”

Vi seggo – la mente suasa – ma come potrebbe sedervi
un tale invitato dai servi e non dal padrone di casa.

– “Riposati, o anima sazia! Riposati, piega i ginocchi!
Chissà che il Signore ti tocchi, chissà che ti faccia la grazia.”

– “Mi piace il Signore, mi garba il volto che gli avete fatto.
Oh, il Nonno! Lo stesso ritratto! Portava pur egli la barba!”

–  “O Preti, ma è assurdo che dòmini sul tutto inumano ed amorfo
quell’essere antropomorfo che hanno creato gli uomini!”

– “E non ragionare! L’indagine è quella che offùscati il lume.
Inchìnati sopra il volume, ma senza voltarne le pagine,
o anima senza conforti, e pensa che solo una fede
rivede la vita, rivede il volto dei poveri morti.”

– “O Prete, l’amore è un istinto umano. Si spegne alle porte
del Tutto. L’amore e la morte son vani al tomista convinto”.

Spiace, ovviamente, che la lirica sia interrotta bruscamente: ciò che leggiamo  ci offre, comunque, elementi importanti per un primo approccio a questo autore. A cominciare dall’incipit così anticonvenzionale con quella diretta professione di ateismo, certo non particolarmente gradevole per il pubblico di inizio secolo scorso. È straordinaria la modernità di questo dissidio interiore tra Fede e Ragione, tra bisogno di amare una qualche divinità e la dolente consapevolezza che ciò è solo un dolce inganno, un facile sogno.

Contrastano e convivono qui la sensibilità infantile e quella giovanile, il bambino che ancora c’è nell’animo del poeta  – la lezione di Giovanni Pascoli è ben percepibile in tutti i Crepuscolari – e l’adolescente disilluso. Risalta con intensità il bisogno di trovare un rifugio, un luogo ospitale e riposante che conceda un po’ di pace al «cuore in malinconia». Il Dio di cui gli parlano i frati  e che vede raffigurato in chiesa ha le fattezze del Nonno – una presenza costante in molte liriche del giovane Guido –, ha la sua stessa barba: e anche qui lo stato d’animo è contraddittorio, oscilla tra la tenerezza che prova in cuore nell’aver colto quell’analogia e la contestazione razionalistica di quell’ingenuo antropomorfismo.

In quell’abbazia Gozzano sta bene, vi ritorna volentieri, ma si sente invitato dai servi di casa (cioè i buoni frati), non dal padrone (il Dio in cui non crede): è, in fondo, lo stato d’animo costante del poeta, più a suo agio in luoghi dimessi e appartati (la cucina e la soffitta di Villa Amarena nella già ricordata La signorina Felicita) e nel vagheggiamento solitario della propria infanzia o di personali fantasie.

In un’ulteriore lirica poco nota, Un’altra risorta, pubblicata dapprima nel 1910 sulla Rivista Ligure col titolo Novembre e completata nel 1911, Gozzano fa riferimento ad Amalia Guglielminetti, trasformatasi da amante in amica. Alla figura femminile che lo incalza e lo sprona ad agire («Fare bisogna. Vivere bisogna / la bella vita dalle mille offerte») così egli replica:

Le mille offerte… Oh! Vana fantasia!
Solo in disparte dalla molta gente,
ritrovo i sogni e le mie fedi spente,
solo in disparte l’anima s’oblia…
Vivo in campagna, con una prozia,
la madre inferma ed uno zio demente.

Sono felice. La mia vita è tanto
pari al mio sogno: il sogno che non varia:
vivere in una villa solitaria,
senza passato più, senza rimpianto:
appartenersi, meditare… Canto
l’esilio e la rinuncia volontaria.

Vivere “in disparte”, in una perenne condizione onirica, bastare a se stessi perché ci si è autoesiliati e si è rinunciato a tutto: sono temi presenti nella più celebre Totò Merumeni, scritta nello stesso anno. Tratti certamente autobiografici (il rifiuto o l’incapacità di farsi una propria famiglia; l’inazione e la meditazione solipsistica) ma anche temi paradigmatici della condizione dell’intellettuale del Novecento (e forse anche del Postmoderno), sbilanciato sul versante della pura intellettualità, del raziocinio e del sofisma e incapace di autentiche passioni e di genuini entusiasmi.

Proseguendo nell’esame di poesie meno note, in L’onesto rifiuto nel ricusare un facile incontro d’amore ribadisce:

Non posso amare, Illusa! Non ho amato
mai! Questa è la sciagura che nascondo.
Triste cercai l’amore per il mondo,
triste pellegrinai pel mio passato,
vizioso fanciullo viziato,
sull’orme del piacere vagabondo… 
.

Incapacità, impossibilità d’amare: definitivamente fuori dal mito romantico dell’Amore assoluto, rimpiazzato dalla ricerca del «piacere vagabondo» alla maniera di un dandy – caratterizzato, per usare le parole di Charles Baudelaire da «un’aria di freddezza, derivata da un’irremovibile determinazione a non essere coinvolto» –, Gozzano ripetutamente si definisce «triste», gioca con l’annominatio (vizioso/viziato) e persiste a rappresentarsi come un «fanciullo» (ancora una volta, immediato l’accostamento a Corazzini, al «piccolo fanciullo che piange», al «dolce e pensoso fanciullo» del suo componimento più noto, Desolazione del povero poeta sentimentale del 1906).

È il se stesso bambino di quattro anni a essere il protagonista di un’interessante lirica, scabrosa per quei tempi, Cocotte. Il ricordo gli rappresenta il suo incontro con quella figura femminile che a lui era parsa così gentile e che invece la sua mamma definì senza esitazione «cattiva signorina», alla quale assolutamente non si doveva parlare. Il bimbo di quell’età non può che chiedere “Perché?” e la risposta gli confonde ancor più le idee: perché è una «cocotte» «Co-co-tte… la strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d’ovo e di gallina».

Avrà un secondo incontro con la signorina, le chiederà con la spietata franchezza dei bambini se davvero sia una «cocotte» e riceverà un bacio triste senza alcuna risposta («Perdutamente rise… E mi baciò/ con le pupille di tristezza piene»).

Vent’anni dopo il poeta ripensa a ciò, immagina di riprendere il sospeso dialogo con parole amare:

… Dove sei, cattiva
Signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?
.

Un’altra figura che risorge dal passato, alla quale si augura di non essere più, di aver evitato l’orrore della vecchiaia. E il ricordo si fonde col sogno, la fantasia ha il pieno sopravvento; anche se nella realtà quella donna ora sarà attempata, egli la ricrea:

Ti rifarò bella
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!
Il mio sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state… .

Versi celebri e bellissimi, citati però quasi sempre decontestualizzati dal contesto.

Di fronte a un’intera tradizione letteraria che almeno daL Poliziano in poi afferma che bisogna “cogliere la rosa” – in realtà, ben da prima! si pensi all’oraziano carpe diem –, qui Gozzano assume una posizione contraria: non si misura col tempo che passa, non affronta la realtà, non vive nel presente. Si rifugia nel vagheggiamento, nel sogno: solo lì finge di vivere pienamente quella vita che gli è preclusa dalla malattia e che lui stesso si preclude per carattere.

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Orazio e il suo «carpe diem»: leggere le «Odi» può insegnare a vivere

Gozzano è allo stesso tempo intellettuale e sognatore, illuso e disincantato.

James Wells, The Coquette (1885). Fonte: pinterest.com
James Wells, The Coquette (1885). Fonte: pinterest.com

Da questa sospesa contraddizione nascono tutte le sue liriche, che costantemente ci offrono l’evocazione di evanescenti figure femminili remote nel tempo e proprio per questo affascinanti (L’amica di Nonna Speranza) e il ripensamento di un lontano passato (il Risorgimento nella lirica prima ricordata, con la menzione di «Radetzky», del «giovine re di Sardegna», del «salotto della contessa Maffei» e del melodramma verdiano: Ernani, Rigoletto) o la proiezione  in  un improbabile futuro, come è in un altro testo non molto noto, L’ipotesi (1907), di notevole estensione.

Anche qui predomina la consapevolezza di avere poco da vivere: Gozzano la compone quando ha ventiquattro anni, gliene resteranno ancora altri nove.

L’incipit è giocato sulla contrapposizione tra due donne, quella «vestita di nulla» che si è già messa in viaggio per venire a prenderlo con sé e quell’altra che forse avrebbe potuto avere come moglie, che è la a noi ben nota Signorina Felicita, la più netta antitesi alle «donne dei romanzi», alle dame dannunziane e alle facili conquiste cittadine dello stesso Gozzano:

Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa…
Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
in un’antichissima villa remota del Canavese…
Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca,
ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:
un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone…
un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,
il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!… Felicità… 

E il poeta si immagina addirittura ultrasettantenne, nel 1940, realizzato padre di famiglia coi figli lontani, il maschio che manda avanti la ditta, la figlia che entra nel sesto mese di gravidanza (Gozzano in procinto di diventare nonno!): «Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la Vita
è fatta di semplici cose, e non d’eleganza forbita».

Un commovente bisogno di semplicità e di essenzialità: al bando «le buone cose di pessimo gusto», si ricrea con lui anziano protagonista, la stessa situazione “normalmente” borghese (in un’altra lirica poco nota, In casa del sopravissuto, così scrive: «Lungi dai letterati che detesto, / tra saggie cure e temperate spese, / sia la mia vita piccola e borghese: / c’è in me la stoffa del borghese onesto»)  degli inviti a cena di Villa Amarena e finalmente lui saprebbe giocare a carte assieme agli ospiti e non verrebbe relegato in cantina («Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,/e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati»). E il sogno continua, si dilata fino a comprendere una spiritosa spiegazione, a uso della consorte un po’ ottusa, di chi sia il Re di Tempeste di cui lei ha sentito parlare (una formidabile presa in giro di Gabriele D’Annunzio, questa sì nota perché – anch’essa – citata quasi sempre decontestualizzata dal resto).

La lirica poi si chiude in maniera inaspettata, con andamento circolare («Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia, / se già la Signora vestita di nulla non fosse per via. / Io penso talvolta… »), sfuma e dilegua proprio come il sogno narrato. Sogno destinato a restare tale, ipotesi destituita di fondamento reale.

Nella lirica conclusiva dell’ultima raccolta poetica, I colloqui, Gozzano sembra quasi congedarsi consapevolmente dai suoi lettori: rappresenta la sua Musa non come l’attrice che ricorre a tutti i trucchi per celare l’avanzare dell’età ma come la Contessa Castiglione che si ritirò dal mondo quando non si sentì più bella e giovane e visse in una casa senza specchi per non vedere riflessa la sua immagine di vecchia. Lo stesso si augura il poeta:

L’immagine di me voglio che sia
sempre ventenne, come in un ritratto;
amici miei, non mi vedrete in via,
curvo dagli anni, tremulo, e disfatto!
.

Augurio, purtroppo, profetico.

Un giovane che temeva e sperava di diventare vecchio, un adolescente sospeso tra infanzia e maturità, una voce debole e forte al tempo stesso, vergogna («sì, mi vergogno di essere un poeta», scrive ne La signorina Felicita) ma anche orgoglio di essere poeta: contraddizioni felicemente irrisolte, che hanno dato vita ad una delle più originali voci poetiche del nostro Novecento.

Stefano Casarino

Immagine di copertina: lacivettaditorino.it

 


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