Ieri, 9 maggio, mi trovavo al Salone Internazionale del Libro di Torino. Ieri, 9 maggio, si celebrava la Festa dell’Europa, in commemorazione della “Dichiarazione Schuman“, primo discorso politico ufficiale in cui compare il concetto di Europa come unione economica, e in qualche modo anche politica, tra i vari stati europei. Con quella dichiarazione nacque nel 1950 la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, che avviò un processo di creazione di comunità europee che avrebbero potuto sboccare in un federalismo.
Ho potuto vivere la celebrazione di questa ricorrenza come andrebbe vissuta: all’interno di un dibattito intenso tra personalità di rilievo, di cui non si può certo mettere in dubbio la competenza, a prescindere da ogni considerazione soggettiva riguardo il loro pensiero o il loro operato politico.
Dico che andrebbe vissuta all’interno di un dibattito perché altrimenti, a parer mio, si sente di non avere ancora veramente qualcosa da celebrare. Perché c’è ancora bisogno di parlare, di sciogliere questo nodo europeo.
E si sente questa necessità, mentre le elezioni europee si stanno avvicinando, di non parlare solo di campagne elettorali, ma di penetrare più a fondo, nella questione grave dell’identità europea. Che, si può dire senza lo sconcerto di nessuno, potrebbe essere solo presunta. Tempo fa ho presenziato alla presentazione del libro La vita è un viaggio di Beppe Severgnini. Passerò in rassegna, insieme alla sua, le posizioni ascoltate ieri da personalità come D’Alema, Bianca Berlinguer, Giuliano Amato, Gad Lerner, Ernesto Galli della Loggia, cercando di creare un quadro che possa essere strumento lucido di riflessione. Strumento utile per basi solide di argomentazione, invece che rifugiarsi in pericolose banalità.
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Severgnini alla presentazione del suo libro, aveva parlato della propria esperienza europea. Parlava di quanto questa Europa già nell’adolescenza l’avesse accolto, quando una certa signora Potter lo aveva ospitato in casa sua in Inghilterra per un mese. Si rivolgeva ai giovani presenti nella sala, e implorava di capire quanto è importante quello che abbiamo. Perché, diceva, qualche volta abbiamo bisogno di vedere quello che rischiamo di perdere. La sua proposta, per il giorno del 9 maggio, sarebbe stata di non-celebrazione, proprio nel senso di toglierci quello che l’Europa ci dà. Ricreare le barriere tra i vari stati europei, che questa istituzione ha tolto a nostro vantaggio.
Il 9 maggio, per Severgnini, dovremmo renderci conto di cosa significa far parte dell’Europa, non vivendola per un giorno. Perché a volte capiamo solo il linguaggio della paura. E’ quando si ha paura di perdere quello che si è già conquistato e dato per assodato, che si rinizia a lottare per averlo. E può sembrare una banalità perché forse è troppo vero.
D’Alema ieri, in sede diversa, cioè in sede di dibattito politico con Bianca Berlinguer è chiaramente meno sentimentale. La Berlinguer critica il fatto che questa campagna elettorale sia impostata troppo su questioni nazionali, quando invece dovrebbe essere concentrata sulla questione europea. D’Alema non è d’accordo. E rifiuta la semplificazione, come se fosse un referendum, tra il “pro” e il “contro” Europa.
Dice che l‘Europa ha bisogno di due cose: di una svolta a sinistra dell’Europa, e di una sinistra più Europea.
Per D’Alema, la proposta è di unire l’Europa politicamente più che economicamente. La sua proposta sarebbe, rispetto al Fiscal Compact, un impegno di cinque anni più lungo per risanare i conti pubblici. Dice D’Alema che risanare con la disoccupazione o con l’occupazione è una decisione politica, non tecnica“. Aggiunge inoltre che se i tedeschi continueranno con un nazionalismo arrogante, potrebbero finire con il commettere di nuovo errori, e che perfino la Merkel in questa campagna elettorale stia usando un linguaggio diverso. Anche perché, “se crollano i consumi in Europa, non si vendono neanche le Audi e le Volkswagen“.
D’Alema conclude il suo discorso insistendo sul fatto che l’Europa sia un insieme di valori che potrebbe avere un ruolo nella civilizzazione della globalizzazione. Potremmo essere protagonisti di un processo in cui la civiltà europea delle nuove generazioni interverrà unita nelle questioni mondiali. “Se l’Europa si unisce, è una grande potenza. Sennò non è nulla“.
Giuliano Amato e Galli della Loggia, co-scrittori di un testo pubblicato da “Il Mulino”, dal titolo “Europa perduta?, hanno dibattuto ieri, mediati da Gad Lerner. Le loro diagnosi e le loro terapie riguardo i problemi dell’Europa sono spesso contrastanti. Galli della Loggia, un luminare nello studio degli stati nazionali, parla della creazione dell’Europa come di una “troppa faciloneria nel poter prescindere dallo Stato-nazione”.
Amato sostiene che, in situazioni che sono ad un livello superiore rispetto alla situazione europea, capita che prima si costituisca un’opinione pubblica comune, e poi un’organizzazione istituzionale di conseguenza. Ma che ci siamo dovuti accorgere che il modello dello stato federale, con la sovranità propria dello stato federale, non può accadere in Europa. Che non si può più avere l’assoluta sovranità dello stato. Possiamo comunque arrivare ad un buon grado di integrazione.E questo lo dimostra attraverso l’esempio dell’Italia (esempio discutibile, proprio perché l’identità italiana è messa in dubbio forse quanto quella europea).
Nel 1860 in Italia non si parlava la stessa lingua. Non più del 10 % della popolazione parlava italiano. Non c’era integrazione. Era stato detto da un funzionario statale recatosi a sud “L’Italiano in Sicilia è un po’ come il tedesco a Firenze“: Amato sostiene che le diversità le abbiamo anche in Italia, ma la storia ha creato gli ingredienti di uno spirito comune. E così la storia ha creato anche gli ingredienti di uno spirito europeo, ma il problema è che abbiamo smesso di crescere insieme.
L’insiemistica europea, prima, era il “di più”. Poi, però, non abbiamo costruito sul futuro (e neanche sul passato) l’unione nella diversità. Non siamo stati capaci di dare la sensazione di costruire un futuro insieme. Questo sarebbe per Amato il problema che sta alla base dell’identità europea. L’essere stata costruita senza basi di progetto comune su cui poggiare.
Galli della Loggia invece, usa termini forti come “europeismo di regime“, “europeismo obbligatorio”. Dà ragione ad Amato del fatto che abbiamo dato un’identità debole all’Europa. Ma sostiene che le cose siano più difficili quando si deve stabilire un’unità consensuale. Negli Stati Uniti, il federalismo era stato scelto dall’alto, da un potere centrale. Ora noi chiediamo il consenso, e il problema è proprio la democrazia. Il problema è aver costruito una “grande architettura di mostruosità costituzionali antidemocratiche“. C’è stata un’assenza radicale del consenso nella costruzione di tale identità. Per un banale, semplice, motivo: non esiste uno spazio pubblico di discussione. Cioè: non parliamo la stessa lingua.
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La democrazia ha per Galli della Loggia bisogno di un mezzo di comunicazione, per poter aprire il dibattito, sennò decidono in pochi. Siamo nel mezzo di una caotica provvisorietà di trattati. Il Trattato di Lisbona, ad esempio, è illeggibile da una persona comune. Come fa un professore ad insegnarlo in classe? Deve prescindere da alcune parti, perché altrimenti è incomprensibile. E questo fa capire quanto grosso sia il problema. Giustifica inoltre il suo parlare di “Ideologia di regime” perché tale è quella che non illumina i problemi che contrastano il proprio assunto.
Lerner ascoltate queste premesse, chiede se sia possibile parlare di “Stati Uniti d’Europa“. Per Amato è una formula bellissima, ma fraintendibile. Gli Stati di Uniti d’Europa non potrebbero corrispondere agli USA, ma a qualcosa di cui oggi non possiamo ancora conoscere i contorni. Perché il Compromesso di Madison è bastato negli USA, ma a noi non basta. Perché dobbiamo sentirci rappresentati sia come europei sia anche come stati singoli.
Quando la CECA è stata creata, l’intenzione era un progetto. Era stato detto che l’Europa si sarebbe fatta non tutta di colpo, ma pezzo per pezzo, consapevoli delle identità nazionali. Quello che dobbiamo capire, per Amato, è che l’Europa conviene. Il problema grosso, però, è di ricreare una consonanza emotiva e non solo razionale tra Europa ed europei. E per questo c’è bisogno di uomini politici che siano all’altezza del compito. Citando Keynes, che aveva paragonato gli economisti del suo tempo a “dentisti che sanno solo otturare la carie ma non sono in grado di parlare del futuro della tua bocca“, dice che gli uomini politici devono smettere di essere dentisti mediocri.
A parere di Galli della Loggia, invece, gli europei hanno solo smesso di farsi la guerra. L’Europa non è più di-più. L’appartenenza non può essere definita dal dare di più.
In che senso, allora, siamo ancora una comunità politica? Siamo condannati a non esserla? In realtà una terapia esiste, e, anche per Galli della Loggia, è la politica.
“La politica può fare miracoli d’invenzione, ma se ha una grande audacia“.
Lui ce l’ha con il federalismo esclusivamente per il fatto che i federalisti pensano di poter buttare lo stato nazionale come fosse un’inutile quisquilia. Ma la politica è anche audacia. E la politica può fare miracoli.
I problemi sono tanti, sono reali: politici, economici, linguistici. E’ giusto conoscerli, è doveroso ascoltare chi ha le competenze per dibattere, e dobbiamo anche noi, armati di grande umiltà intellettuale, essere i primi a metterci in discussione. Io, personalmente, armata appunto dell’umiltà intellettuale di fronte ai problemi studiati, voglio credere nonostante tutto che questa Europa possa essere un di-più.
Perbenismo? “Ideologia di regime”? No. Parlo per me.
Che quest’estate, volendo, potrei andare a lavorare a Londra senza bisogno di permessi e visti particolari e costosi, a Londra come in qualunque altra città europea.
Che ho a disposizione fondi per frequentare altre università europee.
Che posso prendere un aereo internazionale europeo munita soltanto della carta d’identità.
Che posso andare in America e dire che “vengo dall’Europa“, sapendo che loro hanno una visione d’insieme su di noi.
Consapevole, quindi, che basta iniziare a sentircisi per risolvere il problema più grande. Quello del sentimento d’identità. Forse è alla politica che spetta fare miracoli.
Ma spetta a noi, nel nostro piccolo, incentivarli. Come? Sentendoci cittadini europei. Iniziando a pensare l’Europa come ad una patria. Un giorno, qualche tempo fa, ho letto da qualche parte una frase che mi è piaciuta. E’ di Jim Elliot. Diceva più o meno così:
Il paradiso è: un poliziotto inglese, un cuoco francese, un tecnico tedesco, un amante italiano, il tutto organizzato dagli svizzeri.
L’inferno è: un cuoco inglese, un tecnico francese, un poliziotto tedesco, un amante svizzero, e l’organizzazione affidata agli italiani
Siamo tutti diversi. Ognuno ha i suoi celebri pregi e i suoi ancora più celebri difetti. Ma insieme possiamo essere di più.
Vorrei vivere in uno stato in cui i poliziotti sono inglesi, i cuochi sono francesi, i tecnici sono tedeschi, gli amanti sono italiani, e il tutto è organizzato dagli svizzeri.
Cioè: vorrei vivere in Europa.
Silvia Lazzaris
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