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Il fotogiornalismo tra
realtà e manipolazione

Di fronte agli occhi di un qualsiasi fotografo c’è una realtà oggettiva da descrivere, interpretabile e, da sempre, manipolabile. In che cosa dovrebbe consistere l'anima del fotogiornalismo?

5 minuti di lettura

Tra realtà oggettiva e manipolazione, tra etica ed estetica esiste un mondo che viene messo in discussione ogni giorno, un mondo ricolmo e strabordante di immagini, che oggi si trova ancora una volta di fronte a una nuova crisi del postulato secondo il quale la fotografia svolgerebbe una funzione di mimesi, di testimone nei confronti della realtà, ovvero di una sua rappresentazione quale fosse una prova di esistenza di ciò che viene espresso in uno scatto. L’anima del fotogiornalismo dovrebbe consistere proprio in questo: il fotoreporter che, attraverso le sue immagini, aiuta gli altri a vedere e comprendere luoghi e situazioni distanti, diventa invece il bersaglio mediatico messo sotto pressione, con dibattiti che partono dalle origini di questa professione e che oggi si fanno sempre più reali.

Dai fatti si deduce che la realtà imparziale è ben lontana dal postulato mimetico, non soltanto dopo la nascita di uno strumento potente come Photoshop o simili programmi di manipolazione. La questione si attesta molto prima, nello stesso fatto che la fotografia si manifesta solo in apparenza come la copia neutrale del mondo e fornisce un risultato molto più complesso di una semplice copia, molto più vicino alla rappresentazione pittorica, anche se si tratta di due forme che non si equivalgono mai.

Il fotogiornalismo moderno nasce alla metà degli anni venti del XX secolo in Germania e la figura professionale con cui viene rappresentato si trova esattamente a metà tra il giornalista e il fotografo. Da quei primi anni, dai primi fotoreporter, questa professione si è portata dietro notizie, storie, che sembrano diventare, inevitabilmente e facilmente, racconti in svendita per concorsi e testate giornalistiche.

In queste settimane il fotogiornalismo sembra essersi fermato a riflettere diviso tra colpevolisti e innocentisti, la responsabilità del fotografo e del giornalista sono messe in discussione, così prestigiosi riconoscimenti come il Word Press Photo, il premio Pulizer o una delle più importanti agenzie fotografiche del mondo come la Magnum si trovano a fare i conti con la realtà pressante dei media.

Il 23 aprile scorso il fotografo Paolo Viglion, visitando la mostra di Steve McCurry a Venaria Reale, tra le 250 fotografie esposte ha notato un errore grossolano di fotoritocco in uno degli scatti esposti. Il titolo della foto è L’Avana, Cuba, 2014 e porta con sé un errore innegabile, soprattutto vista la quantità di mani e sguardi a cui è stato sottoposto prima dell’esposizione. In poche ore la notizia fa il giro del mondo, passa da uno schermo all’altro e si fa notare.

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L’Avana, Cuba, 2014 © Steve McCurry

La gamba di un passante diventa parte del palo giallo di un segnale stradale. Una persona è stata letteralmente spostata, e non facendo i giusti controlli, si trova in una posizione sfalsata, come fosse stata clonata in modo frettoloso.

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particolare di L’Avana, Cuba, 2014 © Steve McCurry dal blog di Paolo Viglione

La svista ha sollevato una tempesta di questioni e parole nei giorni a seguire, che hanno riguardato non solo McCurry e la sua squadra, e che, in modo molto più sotteso, riaprono una serie di domande a cui non è facile dare una risposta.

Dove arriva la realtà e dove inizia la manipolazione? Dove si spingono i fotografi per un’immagine? E dove, invece, si spinge il fotogiornalismo?

McCurry si scusa pubblicamente, licenzia il suo collaboratore e, in un primo momento decide di togliere la fotografia dalla mostra. In tutta questa storia la curatrice dell’esposizione ci tiene a sottolineare quanto sia ingiusto che questo errore si trasformi in un pretesto per far passare in secondo piano l’intera mostra, soprattutto perché lo scatto non è etichettabile come una foto di guerra, anzi si tratta di uno scatto personale dell’autore. 

Nella sua carriera McCurry non si è mai tirato indietro e anche questa volta si espone alle accuse e dichiara che «la lezione imparata da questa disavventura è che probabilmente dovrò concentrarmi sulle cose da fare più vicino a casa, quelle che posso controllare meglio» – come riportato da la Stampa.

Se permette di chiarire un problema, il dibattito è sempre utile. Così lo scatto non viene immediatamente eliminato dalla mostra come deciso ma, prima dell’arrivo della stampa corretta da New York, rimarrà esposto insieme alle altre opere.

Non è certo una novità che la realtà venga manipolata da sempre – numerosissimi sono i casi dove Photoshop non c’entra -, anche da prima della nascita di qualsiasi programma di fotoritocco e da prima della post produzione in camera oscura.

Solo qualche giorno prima, il 18 aprile di questo stesso anno, lo scatto che fa vincere il Premio Pulizer a Leszlo Balogh e al New York Times racconta una bugia velata e senza ritocchi.

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© Leszlo Balogh

Il contesto della fotografia è prettamente fotogiornalistico, l’autore, con la squadra di quattro colleghi ha vissuto quaranta giorni con i migranti seguendo il cammino dalla Grecia alla Svezia. Il problema sta invece nella spiegazione della fotografia vincitrice, che nasconde una verità completamente diversa da quella che mostra.

L’interpretazione della fotografia di Balogh viene smentita in un video di Euronews pubblicato nei giorni successivi. Il video riprende gli attimi prima e dopo lo scatto e dipinge tutta un’altra storia. Lo scatto, in cui sembra che l’uomo tenti di allontanare le forze di polizia, si rivela invece come l’immagine dell’uomo che difende la sua famiglia dalla polizia ungherese: una storia letta al contrario.

La realtà è davvero al limite e viene costantemente messa alla prova, fortunatamente a volte la rappresentazione del fotografo, e del fotogiornalista, si avvicina, per quanto possibile, alla realtà e il loro lavoro riesce a rispecchiare la storia e il contesto che lo circonda: riesce a regalare al lettore un pezzo reale di storia.

Il 18 febbraio la giuria del Word Press Photo, presieduta da Francis Kohn, sceglieva il vincitore per l’anno 2016, si tratta di Hope for new life, scattata da Warren Richardson a Röske, in Ungheria.

hope for new life
Hope for new life © Warren Richardson

Un uomo fa passare un bambino sotto il filo spinato lungo il confine serbo-ungherese. La fotografia sembra mostrare al meglio la situazione disagiata che la guerra dei confini sta portando al mondo.

L’anno prima, sempre durante la premiazione, qualcuno aveva gridato al falso e per la nuova edizione le precauzioni prese hanno portato al risultato sperato: una fotografia autentica, che senza sotterfugi, riesce a spiegare la storia dei nostri anni.

Scattata con una Canon EOS 5D Mark II, con un’alta sensibilità (6400 ISO) e un tempo lento (1/5 secondi), Richardson la racconta così:

Quella notte, dopo cinque giorni in un campo profughi, vidi un gruppo di circa 200 persone che si muoveva nascondendosi tra gli alberi, lungo la barriera del filo spinato. Mandavano le donne e i bambini e le persone anziane davanti. Giocammo tutta la notte al gatto e al topo. Erano circa le tre del mattino quando ho fotografato, senza usare il flash perché la polizia avrebbe potuto vedere quella gente. Ho scattato al chiaro di luna.

Diventando testimone della storia. 

Di fronte agli occhi di un fotografo, di qualsiasi fotografo, c’è una realtà oggettiva da descrivere, una stessa realtà interpretabile, e da sempre, manipolabile: tutto dipende da come si sfrutta questo potere sotteso senza che diventi una guerra aperta tra etica ed estetica.

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Fausta Riva

Fausta Riva nasce in Brianza nel 1990.
Geografa di formazione(Geography L-6) poi specializzata in fotografia al cfp Bauer.
Oggi collabora con agenzie fotografiche e lavora come freelance nel mondo della comunicazione visiva.
Fausta Riva nasce sognatrice, esploratrice dell’ordinario. Ama le poesie, ama perdersi e lasciarsi ispirare.