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«Seven». Il male siamo noi

Un serial killer uccide le sue vittime in modo efferato, seguendo una sorta di rituale inerente i sette peccati capitali. Thriller teso e avvincente con atmosfere da noir, «Seven» è stato il film che ha consacrato David Fincher come uno dei registi più promettenti della scena contemporanea.

5 minuti di lettura
Seven

Di Seven – thriller del 1995 diretto da David Fincher – resteranno due cose. Due dettagli che non invecchieranno, non sbiadiranno nel tempo. È vero: a rivedere il film per intero a quasi vent’anni di distanza si avvertono i cliché, le manie da cinema nero anni ’90. Città buie e perdute, insegne luminose e sgangherate, la pioggia sporca e i cieli pesanti. C’erano i serial killer astuti e raffinati: quelli, per intenderci, capaci di percepire la differenza tra un Chianti Riserva e della robaccia da supermercato. Quelli che leggevano John Milton e William Shakespeare come fossero quotidiani, che ascoltavano dischi di musica classica sprofondati in poltrona, si circondavano di tessuti di broccato e collezionavano sigari dal profumo intenso. Era la moda dello scontro tra generazioni (moda che viene da lontano e chi può dire se è davvero finita): i detective di vecchia leva versus i nuovi arrivati, le loro differenze di metodo, i loro sguardi sul reale. I primi disgustati dal mondo, i secondi ancora carichi di fiducia verso il futuro. L’assassino veniva scoperto sempre ad una mezz’ora dalla fine per lasciar tempo allo spettatore di comprenderne meglio la psicologia, per guardare la miseria degli ultimi sentendola cosa propria. Ma è ormai roba di vent’anni fa. Oggi, per farsi pubblicità, un killer seriale posterebbe le sue foto su Facebook grazie all’espediente di un falso profilo: è così che seminerebbe indizi, creerebbe suspense. La guerra, la rincorsa al gatto con il topo tra l’investigatore iper-tecnologizzato e l’assassino nerd, si combatterebbe a colpi di click, tra un tweet e l’altro, tra un like e uno smile. Pura fantascienza?

Di Seven, dunque, resteranno due cose.

Seven
In ufficio. Morgan Freeman e Brad Pitt

La prima è la fotografia ad opera di Darius Khondj, classe 1955, nato a Teheran ma naturalizzato francese. Un maestro nel campo della visione. Autore, per altro, delle immagini stralunate di Delicatessen (1991) di Jean-Pierre Jeunet (padre registico della più famosa Amélie Poulain). In Seven Khondji lavorò a fotografia atrofizzata, quasi sporca. Trattata chimicamente in modo da restituire allo spettatore un girato cupo e rovinato. La campitura dei neri invade la scena: i visi appaiono segnati, invecchiati anzi tempo dal caos della città malata, dalla sozzura di una criminalità consumata agli angoli delle strade come prassi di ordinaria normalità. La natura non c’è: è annichilita da colonne di cemento, soffocata nell’inquinamento urbano che sputa aliti nebbiosi da tombini e tubi di scappamento. Anche gli interni sono stonati: gli uffici spigolosi e dimessi, gli appartamenti arroccati e provvisori, il cibo è spazzatura, take away di infima categoria. Il risultato è un quadro espressionista che rimanda alle xilografie sofferte di Ernst Ludwig Kirchner raffiguranti paesaggi pestilenziali, terreni solcati da piaghe e visi stilizzati in maschere geometriche. Un esperimento che, su un thriller come Seven, trasforma la già nota dinamica dell’ «indizio ad ogni cadavere» – tipica, come suggerivamo, di un certo filone da killer seriale – in un intreccio ad alta qualità visiva. La vicenda criminale fa da sfondo ai ben più interessanti tormenti interiori del vecchio William Somerset (Morgan Freeman) detective solitario e disilluso ormai prossimo alla pensione.

Seven
In auto. Kevin Spacey

Ma ciò che forse resterà di Seven è la scena dell’auto. C’è Brad Pitt che interpreta David Milles, giovane detective arrivato da poco in città con la moglie Gwyneth Paltrow, insegnate elementare incinta (ma lui ancora non lo sa). In auto c’è anche Morgan Freeman. Insieme stanno scortando il «super serial killer dei peccati capitali» (da qui il nome Seven: sette vizi) verso una località fuori città.
John Doe (Kevin Spacey) vuole mostrare loro la pagina ultima del suo operato macabro: mancano, in effetti, ancora due cadaveri all’appello. Sono ira e invidia. Doe ha ammazzato perché glielo ha suggerito Dio (quel che lui chiama dio e che forse altro non è che la sua stessa percezione del divino, un concetto un po’ distorto di somma giustizia). Lo ha fatto perché – a suo dire – esiste un sistema più grande che governa il mondo. Un giorno il suo agire, che oggi viene punito dalla legge e bandito dal consorzio umano, verrà riconosciuto come necessario. Doe incarna l’emissario dell’epoca contemporanea, l’angelo nero che porta la giustizia (che giustizia?) in terra. David Mills è scettico. Ma fa parte dei giochi.

Lui è il giovane detective un po’ tonto: quello che ha sventato un paio di casi in una tranquilla cittadina di provincia e a cui han detto «sei bravo, hai stoffa!». Si è montato la testa – ma non troppo perché è un bravo ragazzo – e crede di avere fiuto per il malaffare. Però è pigro e forse dimentica che per essere un buon detective è necessario possedere una cultura altra che non sia solo criminale quanto piuttosto esistenziale, per non dire umanistica. Non ha lo stesso modo di agire di Somerset, non la sua stanca disillusione sul mondo, la bieca solitudine che gli pesa sulle spalle e un passato squallido dietro a sé: un amore finito, un aborto che avrebbe potuto essere un figlio. Somerset legge. Riflette. Pensa prima di agire: è di poche parole ma di molti fatti, soprattutto di molta riflessione. Se Mills si prende il bigino del Paradiso Perduto, Somerset sfoglia grossi libroni in biblioteca, entra nel linguaggio letterario per farlo suo, per leggere – attraverso le grida di Milton, le lacerazioni di Dante e i tormenti di Shakespeare – i drammi del nostro tempo, le malattie delle metropoli contemporanee. Ma quel linguaggio letterario e altisonante resta, per Mills, un codice cifrato di impossibile soluzione. E la differenza tra i due si misura qui, nello scarto culturale che fa del vecchio un grande detective e del giovane un principiante alle prime armi. La scena della macchina in Seven resterà negli annali per il discorso di Kevin Spacey, per la ricezione attenta di Somerset e l’ottusità di Mills. Ottuso fino alla fine.

Seven
Nel deserto. Brad Pitt

«Chi sono non ha nessuna importanza»: non c’è identità, se non l’identità dell’attante, quella votata a colpire. John non ha intenzione di svelarsi, di raccontare di un ipotetico passato torbido e malato, del perché sia caduto così in basso. Quel che conta per lui è l’opera, «il mio lavoro», l’operato del male che, a suo dire, non è poi così diverso da quello della polizia. Si lavora in una stessa direzione, con lo stesso scopo di annientare – dunque allontanare dalla società allo scopo di depurarla – i soggetti malati e colpevoli. I corpi inutili.

Somerset ascolta in silenzio.

Per John le vittime non sono incolpevoli: «Innocenti? Se è una battuta non fa ridere». C’è un obeso che ha erto il cibo, l’ingozzarsi, a sua massima aspirazione, un avvocato «che ha dedicato la sua vita al denaro» oppure «una donna così orribile dentro che non può nemmeno sopportare di vivere perché ha perso la bellezza esteriore». Per John «solo in questo mondo di merda si possono definire innocenti persone come queste e rimanere con la faccia seria».

Viviamo in un mondo dove si assiste a «un peccato capitale ad ogni angolo di strada, in ogni abitazione, ma lo tolleriamo. Lo tolleriamo perché lo troviamo comune, insignificante, lo tolleriamo mattina, pomeriggio e sera». Una società malata dove si è accettato il male, dove il peccato (etico in questo caso) consiste più nel silenzio, nell’acquiescenza, nella non-azione, nel vivere nel proprio angolo, fare il proprio lavoro e permettere che il male serpeggi.

La fine

Il progetto di John non ha senso. Ma Somerset ascolta in silenzio perché pur nella follia, pur nel suo essere solo materiale da spot giornalistico («se ti va bene, al massimo, diventerai una faccia su una t-shirt») il killer John Doe ha ragione. Nessuno è immune, il peccato attanaglia la gola dei viventi, gli uomini sono tutti colpevoli e forse quei due mestieri, quello dell’omicida e quello del poliziotto, nella contingenza dei fatti, non sono poi così distanti. Il disgusto esistenziale di Doe è lo stesso provato da Somerset. Certo il primo ha la lucidità, l’adrenalina del progetto: crede nel proprio ruolo salvifico. Mentre il secondo, attanagliato dal suo pessimismo non ha più fede, non più speranza, solo un grano di etica che – forse per l’ultima volta  – lo salva dal baratro eterno: «Ernest Hemigway una volta ha scritto: “il mondo è un bel posto e vale la pena lottare per esso”. Condivido la seconda parte».

di Ilaria Moretti

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