Samuel (Billy) Wilder nacque a Sucha, in Polonia, il 22 giugno del 1906. Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza e dopo aver collaborato per qualche tempo con un giornale di Vienna, si trasferì a Berlino, dove lavorò come reporter per il maggiore tabloid della città. Dal 1929 al 1933 si fece conoscere, scrivendo le sceneggiature per il regista tedesco Robert Siodmack, ma l’ascesa di Hitler e le leggi razziali, che falcidiarono la sua famiglia nei campi di concentramento, lo costrinsero a scappare prima a Parigi e poi negli Stati Uniti. Wilder giunse a Hollywood povero in canna e senza sapere una parola di inglese, assieme al grande attore Peter Lorre, con cui condusse un’esistenza quasi di stenti, mantenendosi con sporadiche collaborazioni a sceneggiature di film di serie B. Continuò a scrivere sceneggiature fino al 1942, quando, per la prima volta, ebbe l’occasione di dirigere il film The Major and the Minor con Ginger Rogers. Poi fu la volta di La fiamma del peccato, uno degli esempi più nobili del genere noir, e tre anni dopo Giorni perduti, il primo film a trattare in modo aperto e diretto il tema dell’alcolismo. Questo film vinse quattro Oscar per migliore regia, film, sceneggiatura e attore protagonista. Nonostante la notorietà, la guerra costrinse Wilder ad abbandonare il cinema fino al 1948, quando riprese a lavorare dietro alla cinepresa. La celebrità era ormai dietro l’angolo; nel 1950 realizzò un classico, Il viale del tramonto, anche questo meritevole di ben tre Oscar. Nella sua lunga carriera Wilder, portò a casa sei statuette d’oro, per regia e sceneggiatura, oltre ad innumerevoli nomination all’Oscar e a svariati altri premi ai festival di Berlino, Cannes, New York e Venezia. Morì a West Los Angeles, a 95 anni, il 27 marzo del 2002 per le conseguenze di una polmonite.
L’ode di Billy Wilder all’invecchiamento
Nei suoi ventisette film Billy Wilder ha affrontato varie tematiche, senza mai lasciare da parte l’ironia, vero fil rouge della sua filmografia. Una delle più ricorrenti è il metacinema, consistente nello scrivere un film ambientato nel mondo dell’industria cinematografica, per criticarla, ironizzarne e smitizzarla. Una delle rappresentazioni più maestose di metacinema la individuiamo in Il Viale del tramonto, dove una monumentale Gloria Swanson dà vita ad una diva decaduta del muto, Norma Desmond, che vive nel ricordo di un passato glorioso, in una villa che è un monumento alla decadenza stessa. La scelta di farla interpretare alla Swanson, la quale fu veramente un star del cinema muto, può essere identificata come il primo tassello di un mosaico narrativo che fa del metacinema una delle tematiche principali del film. In Viale del tramonto si percepisce anche l’intenzione del regista di criticare l’industria hollywoodiana per aver inculcato tra i suoi lavoratori e nella società, tutta, la fobia nei confronti dell’invecchiamento, e di quella mutazione del corpo, con cui non solo le luci della ribalta, ma anche gli altrui superficiali sguardi, non sono clementi. Viale del tramonto viene spesso paragonato a Fedora, altro esempio calzante di metacinema, il quale racconta di una diva bellissima, Fedora appunto, decisa a ritirarsi dalle scene nel fiore della sua bellezza e carriera, per essere così ricordata dal mondo, come fece Greta Garbo. Altri temi spesso sviluppati da Wilder nei suoi film sono il trasformismo, il ruolo della maschera e del travestimento, reale e della personalità, di cui è un gustoso esempio A qualcuno piace caldo, capolavoro di ironia e colpi di scena. Ne L’appartamento notiamo invece una feroce critica al clientelismo, al carrierismo, al mobbing e all’ipocrisia dell’America media, sfottò particolarmente caro a Wilder anche in Prima pagina. L’autore lavorò con attori immensi, e contribuì spesso a creare dei miti tra cui la coppia Jack Lemon – Walter Matthau, William Holden e Marylin Monroe. Tutti i suoi film sono un concentrato di irriverenza e critiche sociali velate di una sottile ironia che rendono ogni suo capolavoro divertente e triste al tempo stesso. Wilder, però, non ha di certo la pretesa di moralizzare o la benché minima intenzione di condannare Billy, ma esprime nel linguaggio che più gli compete la sua personalissima visione del mondo e, senza volerlo, è un esempio per chiunque desideri avvicinarsi alla sceneggiatura e alla regia.
L’appartamento (1960)
Il contabile C.C. Baxter, detto Ciccibello (Buddy Boy nell’originale), impiegato in una grossa compagnia di assicurazioni americana, riesce ad accattivarsi le simpatie dei dirigenti della sua azienda prestando loro, per scappatelle extraconiugali, il piccolo appartamento ove vive e durante i brevi incontri amorosi dei temporanei “subaffittuari”, Baxter va a spasso per la città.
Tutto procede felicemente finché Baxter non si innamora di Fran Kubelik, graziosa lift-girl, una delle signorine in uniforme che manovrano i grandi ascensori del palazzo aziendale. Ma presto scoprirà che questa è l’amante del capo del personale, Jeff D. Sheldrake, il quale, dietro consiglio di un collega, si rivolge proprio a lui per ottenere anch’egli l’uso dell’appartamento…
di Susanna Causarano
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