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il figlio di Saul

«Il figlio di Saul»: un barlume di umanità negli inferi

Il regista László Nemes rappresenta la regola e non l'eccezione dei campi di sterminio in una lenta discesa verso gli inferi, mentre cerca di sopravvivere l'ultimo anelito di umanità.

4 minuti di lettura

Al suo esordio sul grande schermo, il regista e sceneggiatore ungherese László Nemes, classe 1977, ha fatto l’en plein. Il suo primo lungometraggio Il figlio di Saul, già premiato al Festival di Cannes nel 2015 con il Grand Prix della Giuria e vincitore del Golden Globes 2016, la scorsa settimana ha portato a casa anche la statuetta dell’Oscar come miglior film straniero, che suggella il successo internazionale di un’opera cinematografica assolutamente innovativa, che stilisticamente segna un punto di non ritorno.

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I Sonderkommando e le origini di «Il figlio di Saul»

Nemes racconta la tragedia della Shoah attraverso lo sguardo di Saul Aslander, prigioniero del lager di Auschwitz-Birkenau, impiegato nella squadra di Sonderkommando addetti all’ingrato compito di condurre i deportati alle camere a gas, gettarne i corpi nei forni crematori e infine disperderne le ceneri. Accusati di collaborare con gli aguzzini, i Sonderkommando si discostano dal chiché del deportato, soprattutto perché ben nutriti ed in forze per assolvere al loro duro lavoro, sono figure controverse di cui anche Primo Levi si rifiutò sempre di parlare definendoli «corvi neri del crematorio».

Nemes ne riabilita l’immagine maledetta, e lo fa basandosi su una serie di testimonianze lasciate dai prigionieri stessi, sepolte nel terreno di Birkenau a futura memoria, ritrovate e raccolte dallo storico italiano Carlo Saletti presso il Centre de documentation Juive Contemporaine di Parigi, e pubblicate nel 1999 nel volume La voce dei sommessi (Marsilio) dello stesso Saletti. Curiosando tra gli scaffali di una libreria londinese László Nemes, all’epoca assistente del regista Béla Tarr sul set del film L’uomo di Londra, ne resta affascinato e decide di trasporle sul grande schermo.

C’è dunque qualcosa di italiano in questo film che mostra, senza dare giudizi morali, come dietro l’apparente assuefazione alla morte i prigionieri del Sonderkommando siano stati gli unici ad essere in grado di organizzare una rivolta all’interno del lager di Auschwitz e a lasciare dettagliate testimonianze anche attraverso fotografie scattate clandestinamente di ciò che si stava consumando sotto i loro occhi, cercando di farle pervenire alla resistenza esterna ed agli Alleati.

Il giovane regista ungherese fa uso del piano sequenza (ispirandosi a grandi maestri quali Orson Welles in Quarto potere o Michelangelo Antonioni in Professione reporter, che insieme a Ingmar Bergman e Stanley Kubrick sono i suoi registi cult) applicando questa tecnica in modo nuovo, dopo averla sperimentata nel 2006 in un cortometraggio girato in un’unica ripresa di 13 minuti, sempre sullo sfondo dei campi di sterminio.

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Una discesa negli inferi: Saul diventa Virgilio 

Il film si apre con tre piani sequenza che introducono lo spettatore dentro allo scenario del film: l’immagine, in un primo tempo completamente sfocata diventa via via più nitida, dalla nebbia prendono forma figure, suoni, respiri, che ci veicolano dentro all’orrore. Solo la parte centrale dell’immagine sullo schermo appare a fuoco, i contorni restano sfumati, le inquadrature non sono mai panoramiche, e la scelta di girare in 4:3 con un formato quadrato rafforza l’effetto claustrofobico, la parzialità della visione che coincide con il punto di vista confuso e limitato del protagonista Saul Aslander.

Camminando alle sue spalle, come suoi angeli custodi, con gli occhi fissi sulla X rossa che segna le spalle della divisa degli uomini delle squadre dei Sonderkommando, con lui posiamo di sfuggita lo sguardo sui «pezzi» (così vengono nominati i cadaveri) ammassati nei forni, puliamo sangue e liquami di cui sono cosparsi i pavimenti, frughiamo tra gli effetti personali delle vittime, alimentiamo le caldaie, spaliamo montagne di cenere.

Nemes usa l’allusione, racconta l’inferno senza mostrarlo, facendolo solo intuire ad uno spettatore comunque già consapevole dei fatti, si limita a suggerire affidandosi al potere evocativo dell’immaginazione individuale che evita la banalizzazione della tragedia. Una discesa verso gli inferi senza un attimo di tregua nella quale Saul, che ha il volto di pietra e lo sguardo annichilito del poeta e magistrale attore ungherese Géza Röhrig, diviene una sorta di inconsapevole Virgilio dantesco.

Non vi è una linea narrativa, lo spettatore è chiamato a ricostruire la sequenza degli eventi attraverso frammenti di conversazioni, scambi di frasi clandestine ridotte all’essenziale in una Babele di idiomi che va dal polacco al tedesco, dall’yiddish all’ungherese, assistendo all’ostinato tentativo del protagonista di dare una dignitosa sepoltura al corpo di un giovane sottratto ai medici nazisti, nel quale egli riconosce il proprio figlio o forse il figlio che non ha mai avuto, ultimo anelito di umanità in un luogo dove di umano non rimane più nulla.

Sul set di Il figlio di Saul (2015)
Sul set di Il figlio di Saul (2015) – fonte: www.cdn5.thr.com

Nessuna melodia dove non c’è salvezza

Lo spazio sonoro è portentoso. Pochissimi dialoghi, quasi tutti nelle lingue originali, nessuna melodia musicale ad enfatizzare i momenti salienti, sono solo i rumori delle caldaie, dei forni che ardono, gli ordini dei soldati tedeschi, le grida dei prigionieri, i pianti dei bambini, i colpi di arma fa fuoco a far da sottofondo all’orrore.

Il film è una sorta di “anti”-Schindler’s List, è lontano da tutti gli stereotipi che i campi di sterminio suscitano nell’immaginario collettivo. Non ci sono alti camini fumanti, non ci sono cancelli, né soldati con gli stivali lucidi ed i cani al guinzaglio, né fili spinati in controluce. Afferma lo stesso Nemes: «Laddove Spielberg ha rappresentato la salvezza, che ad Auschwitz era l’eccezione, io ho rappresentato la regola, cioè la morte».

È significativo che il film sia prodotto in Ungheria, paese nel quale sta rinascendo un preoccupante antisemitismo, dove leggi liberticide stanno minando la libertà stampa, dove il revisionismo porta a rimuovere le passate responsabilità dei Governi nazionali europei nel tollerare la follia nazista della soluzione finale, con il rischio di obliare la storia e assopire la coscienza civile di un popolo.

László Nemes vince con Il figlio di Saul il premio Oscar 2016 come miglior film straniero - fonte: www.24.hu
László Nemes vince con Il figlio di Saul il premio Oscar 2016 come miglior film straniero
– fonte: www.24.hu

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Valentina Cognini

Nata a Verona 24 anni fa, nostalgica e ancorata alle sue radici marchigiane, si è laureata in Conservazione dei beni culturali a Venezia. Tornata a Parigi per studiare Museologia all'Ecole du Louvre, si specializza in storia e conservazione del costume a New York. Fa la pace con il mondo quando va a cavallo e quando disquisisce con il suo cane.

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  1. […] “Il figlio di Saul”: un barlume di umanità negli inferi – Al suo esordio sul grande schermo, il regista e sceneggiatore ungherese László Nemes, classe 1977, ha fatto l’en plein. Il suo primo lungometraggio Il figlio di Saul, già premiato al Festival di Cannes nel 2015 con il Grand Prix della Giuria e vincitore del Golden Globes 2016, la scorsa settimana ha portato a casa anche la statuetta dell’Oscar come miglior film straniero, che suggella il successo internazionale di un’opera cinematografica assolutamente innovativa, che stilisticamente segna un punto di non ritorno. Leggi tutto […]

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